Lisa Tuttle – Il profumo dell’incubo

Titolo: Il profumo dell’incubo

Autore: Lisa Tuttle

Editore: Edizioni Hypnos

Anno: 2020

Pagine: 336

Prezzo: 17,90 €

“Aveva quell’atmosfera insensata e sinistra, tipica dell’incubo.”

Il nome di Lisa Tuttle probabilmente risulterà sconosciuto alla maggior parte dei lettori, anche a chi, come il sottoscritto, si dichiara grande appassionato di letteratura fantastica e weird. Lo devo ammettere: prima che Edizioni Hypnos portasse in Italia la raccolta di racconti “Il profumo dell’incubo”, ignoravo l’esistenza della talentuosissima autrice statunitense, complici anche le scarse traduzioni delle sue opere presenti nel nostro Paese. Ed è un vero peccato perché, lo dico fin da subito, le tredici storie che compongono “Il profumo dell’incubo” sono assolutamente straordinarie.

I racconti sono stati selezionati direttamente dall’autrice, andando a comporre una sorta di best of della sua produzione di narrativa breve, abbracciando un arco temporale che parte dagli inizi degli anni ‘80 per arrivare alla contemporaneità. Le storie della Tuttle iniziano tutte con solide basi nella realtà quotidiana, fatta di ambizioni, tradimenti, passioni e risentimenti, per poi lasciarsi traghettare in un viaggio senza ritorno all’interno dei nostri incubi più insondabili, dentro un’oscurità da cui non sarà più possibile evadere. L’horror e il fantastico non sono il fine ma il mezzo per poter affrontare tematiche scomode e complesse, con un coraggio e uno sguardo inedito che trasforma i racconti proposti in veri e propri piccoli capolavori. Le protagoniste della Tuttle si rivelano essere quasi sempre donne, a volte forti e determinate, altre fragili e succubi ma sempre dotate di una profondità psicologica che non le riduce mai a semplici macchiette, donandole invece uno spessore e un vigore che non sempre si riscontrano nella narrativa breve. I testi della scrittrice americana scavano senza timore nell’abisso dell’universo femminile, portando a galla temi universali come la maternità e la violenza sulla donne, sia essa fisica o psicologica. Esempio perfetto è “La casa degli insetti”, il racconto che apre l’antologia, in cui le venature horror scelte dalla Tuttle narrano una storia di abusi che si protrae da generazioni, incarnata da uno sconosciuto che ha reso schiava la zia della protagonista. Oppure l’originalissimo “La mia malattia”, dove l’uomo di cui è innamorata la narratrice si spingerà ben oltre il consentito per raggiungere la mitica Pietra Filosofale. “A cavallo dell’incubo”, in cui realtà e sogno si mischiano senza soluzione di continuità, dona uno sguardo apertamente critico sulla maternità, controbilanciato dal dolce e disperato “L’ora in più”, dove la scoperta di una stanza in cui il tempo scorre con una concezione differente rispetto al mondo reale porterà a conseguenze inimmaginabili. La Tuttle però non si ferma qui e con “L’uomo di cibo” si cimenta con l’anoressia per poi proseguire con l’agghiacciante “Sogni nell’armadio”, tra i racconti migliori della raccolta, ad affrontare il tema della pedofilia, confezionando una piccola bomba ad orologeria narrativa, pronta a deflagrare nello scioccante finale. Non mancano però gli omaggi agli autori che hanno influenzato la scrittura dell’autrice nativa del Texas e che hanno reso immortale il genere weird, come il maestro Robert Aickman, a cui è dedicato “Il libro che ti trova”, storia d’amore e di fantasmi, in cui la passione per i libri gioca un ruolo fondamentale. Altro gigante è Walter de la Mare, esplicitamente citato ne “L’ultima sfida”, delicata ed inquietante ghost story che profuma dell’Inghilterra di fine ‘800. Come non citare infine “La ferita”, racconto distopico sul machismo e l’identità di genere, dove gli uomini subiscono una curiosa metamorfosi.

Il profumo dell’incubo” è un’antologia di assoluto valore, scritta con uno stile fluido e senza troppi fronzoli che non risulta però mai piatto o banale. Non lasciatevi influenzare dal genere di riferimento perché le storie della Tuttle piaceranno anche a chi non mastica horror o weird. L’estrema originalità e i temi sviscerati sono i veri piatti forti di questi tredici racconti, tutti collegati da un sottile ma persistente fil rouge. Vi assicuro che a lettura ultimata, anche a distanza di giorni, gli incubi di Lisa Tuttle torneranno furtivi a bussare alla vostra mente, continuando a regalarvi splendidi attimi di piacevole turbamento.

Voto: 5/5

Mr. P.

Pablo Simonetti – La superba gioventù

Titolo: La superba gioventù

Autore: Pablo Simonetti

Editore: Edizioni Lindau

Anno: 2019

Pagine: 376

Prezzo: € 24,00

“Ognuno ha un suo rapporto particolare con l’età. Io mi sentii vecchio per la prima volta a cinquantadue anni. E non a causa dei piccoli fastidi ai polmoni o alla pelle di cui talvolta soffrivo, ma in seguito al mio incontro con Felipe Selden, quella sera d’inizio novembre 2008, in una galleria d’arte. Bastarono cinque minuti per convincermi che, fossi stato più giovane, me ne sarei disperatamente innamorato: idea sovvertitrice per uno come me, che non aveva mai creduto all’amore a prima vista né ai capricci del destino.”

Ho conosciuto Pablo Simonetti ormai due anni fa con la splendida raccolta di racconti “Vite vulnerabili“, opera che mi aveva toccato nel profondo, lasciandomi la voglia di approfondire qualsiasi altro testo uscito dalla penna dell’autore cileno. Il mio desiderio è stato finalmente esaudito, sempre dall’ottima Edizioni Lindau, che ha portato in Italia il romanzo “La superba gioventù“. Così come “Vite vulnerabili“, anche “La superba gioventù” affronta temi delicati e multiformi come la complessità delle relazioni umane, l’affermazione della propria identità sessuale, il senso di impotenza di fronte alla morte e i sentimenti contrastanti derivanti dalla paternità. Simonetti lo fa con una sensibilità tutta sua, che non scade mai nel melenso o nel banale, ma indaga con caparbietà e sentimento i fondali della coscienza umana.

Protagonisti del romanzo sono il narratore, lo scrittore cinquantenne Tomás Vergara, e Felipe Selden, giovane rampollo di una famiglia benestante, cattolica e ultraconservatrice. Affascinante e dalla personalità sfuggente, Felipe vive la propria omosessualità, ma più in generale il sentimento amoroso, condizionato dalle regole ferree imposte dai propri genitori, legati a una moralità ipocrita e che non lascia alcuno spiraglio alle diversità. Nonostante la sicurezza e lo charme che ostenta in pubblico, Felipe sembra quasi cercare conforto nell’amore, gettandovisi a capofitto anima e corpo ma ritraendosi subito dopo per paura di rimanerne imbrigliato. Una dualità di sentimenti che può portare soltanto devastazione nel suo complicato rapporto con Camilo, giovane esuberante che invece gode pienamente e senza compromessi della propria identità sessuale. Proprio Camilo introduce Felipe a Tomás, colui che filtrerà per noi l’intrico di vicende narrate nel romanzo. Profondamente diversi l’uno dall’altro, per età, estrazione sociale e background culturale, i due finiranno per diventare grandi amici, tanto che Tomás assumerà per Felipe, prima involontariamente e poi in modo sempre più consapevole, la figura di una sorte di mentore che cercherà, non senza difficoltà, di traghettare il giovane protagonista verso la consapevolezza di affrontare la vita con pienezza ed entusiasmo. Felipe si troverà a fronteggiare, sempre affiancato dallo sguardo paterno e rassicurante di Tomás, la devastazione della morte e il sospetto che la propria esistenza possa essere in realtà un subdolo gioco del destino, tra manipolazioni e predestinazione. Farà da contraltare l’amore puro e disinteressato per una bambina, un’ancora di salvezza in mezzo al mare di pregiudizio e meschinità in cui finirà per navigare il giovane.

La superba gioventù” si rivela l’ennesima grande prova letteraria di Pablo Simonetti, che accompagna il lettore in un complesso cammino di maturazione, tra la brutalità di sentimenti irrefrenabili e impossibili da nascondere e l’autenticità di alcuni affetti, in grado di sedimentarsi in profondità nel cuore umano. Un romanzo che, senza alcun timore, crea immagini vivide e a tinte forti, in grado di rimanere impresse a lungo nella mente di chi dimostrerà la giusta sensibilità nell’affrontarlo.

Voto: 4/5

Mr. P.

Michael Kimball – Big Ray

Titolo: Big Ray

Autore: Michael Kimball

Editore: Pidgin Edizioni

Anno: 2019

Pagine: 190

Prezzo: € 15,00

“Ogni volta che penso al fatto che mio padre è morto, sento come se fossi qualcun altro. Ogni volta che non penso al fatto che mio padre è morto, mi sento me stesso.”

Big Ray” è perdita, accusa, accettazione, smarrimento, rimpianto. Più di tutto è però dolore. Un dolore acuto, irreparabile, multiforme. Un dolore che avvolge con le sue spire bloccando il respiro, senza lasciare la più piccola via di fuga. Un dolore totalizzante.
Michael Kimball riesce a elaborare questo dolore in un’opera toccante e suggestiva, donandoci uno splendido ibrido tra memoir e fiction, in cui ognuno di noi può ritrovarsi, anche soltanto in una manciata di parole.

Big Ray è il padre del narratore. È obeso, disilluso dalla vita, tirannico, solo. Ed è morto. Proprio la morte del genitore è l’evento scatenante del libro. Una sorta di Big Bang emotivo che paralizza l’esistenza del figlio, diventando l’unico punto fermo della sua realtà. Così ricordi d’infanzia e adolescenza si mischiano, senza soluzione di continuità, a un presente in cui il dolente tentativo di rielaborare il lutto assorbe ogni centimetro della mente del protagonista. Gran parte del fascino del libro è proprio insito nella particolarissima forma narrativa adottata, ossia oltre cinquecento mini paragrafi, tra passato e contemporaneità, in cui viene dato libero sfogo a reminiscenze, suggestioni, riflessioni.
Critiche feroci a una figura paterna evanescente e carica di ostilità, vanno di pari di passo con attimi di una purezza affettiva sconcertante, in cui il narratore avrebbe soltanto voluto un padre che lo accettasse e lo incoraggiasse, che lo stringesse a sé dicendogli quanto gli voleva bene. Un padre che, a modo suo, pare però essere diventato più bendisposto con il passare degli anni. Da quando il figlio è adulto e le loro strade di sono separate, Big Ray gli telefona tutti i giorni, senza saltarne uno. Tuttavia il protagonista sembra quasi non sapere cosa farsene ormai di un padre così, tanto che per un lungo periodo di tempo non gli risponde nemmeno più al telefono. E quel gesto, che si potrebbe giudicare meschino, non lo disturba: anzi, lo fa decisamente sentire meglio. Forse perché è consapevole che avrebbe avuto bisogno di Big Ray quando era soltanto un ragazzino, durante l’adolescenza, il periodo più delicato nella vita di una persona. Invece il padre non c’è mai stato e quando affiorano ricordi infantili in cui il genitore è ben presente, sarebbe meglio seppellirli sotto cumuli di macerie o chiuderli per sempre in un recesso buio e profondo del proprio cuore. Proprio questo dualismo di sentimenti è il cuore pulsante dell’opera, ciò che rende “Big Ray” così delicato e straziante.
“Avevo avuto paura di mio padre per la maggior parte della mia vita. Dopo la sua morte, ebbi paura di essere una persona senza un padre, ma mi sentii anche sollevato che fosse morto. Tutto ciò che riguardava mio padre sembrava così complicato.”

Big Ray” trascina il lettore nel baratro di un inferno privato, con una narrazione frammentata che rappresenta alla perfezione l’emergere sconnesso di cimeli emotivi, raccolti dal protagonista in un personalissimo museo mentale dedicato al genitore che non c’è più. Un libro che ci avvolge in un abbraccio gelido e la cui essenza è tutta in questa, tanto dolorosa quanto semplice, frase:“Mio padre non mi piace ancora, ma mi manca ancora.”.

Voto: 4,5/5

Mr. P.

Tomás Downey – Il posto dove muoiono gli uccelli

Titolo: Il posto dove muoiono gli uccelli

Autore: Tomás Downey

Editore: Gran Vía

Anno: 2019

Pagine: 114

Prezzo: € 13,00

“Le braci sono rosse ormai. Alonso le separa e prende la griglia, sistema le salsicce. Con gli occhi chiusi sente il grasso che crepita sul ferro caldo, l’odore che galleggia nell’aria, i chilometri di campagna che lo circondano, la terra dove le piante crescono e si seccano e crescono di nuovo, gli animali che nascono, muoiono e si decompongono; e lui è una parte infima di tutto quello che gira intorno al sole; e perché, qualcuno glielo spieghi, perché resistere a quell’inerzia se a lui basta guardare il cielo per sapere che quel movimento a spirale, senza fretta, senza posa, un giorno collasserà sul proprio centro; e tutto sarà parte di una stessa nuvola di polvere e gas; e perché Alonso, perché Maria, perché tutti gli orologi del mondo, tutti i cavalli morti, tutti gli ettari di terra secca.”

Mi è bastato il titolo, perturbante ed evocativo, per capire che avrei dovuto leggere assolutamente “Il posto dove muoiono gli uccelli”, seconda raccolta di racconti dell’argentino Tomás Downey. E il mio sesto senso di lettore è stato riccamente ripagato da un’antologia sorprendente, sempre in equilibrio precario tra il concreto e il surreale, tra il nostalgico e il distopico, in un turbine incontrollato di ossessioni, crisi d’identità e brame ardenti e inimmaginabili. Un punto di vista sulle relazioni umane, vero fulcro dell’opera di Downey, tanto inaspettato quanto tormentoso.

I dieci racconti che compongono la raccolta pescano a piene mani nella quotidianità di ognuno di noi, nelle nostre più recondite paure e inconfessabili speranze, dando sguardi fugaci nella vera natura dell’animo umano. Sguardi che portano a galla una profonda disillusione verso un’esistenza pregna di crudeltà e sconforto, in cui ogni via di fuga si rivela un inganno. Non manca però, in mezzo a tanta desolazione, una flebile speranza che qualcosa possa cambiare, portando una luce lieve e intermittente in tanto buio.
Tra i protagonisti delle storie di Downey, un posto d’onore se lo ritagliano i bambini e gli adolescenti, come le tre sorelle del racconto d’apertura. Una manciata di pagine disturbanti, che si ficcano a forza nella mente del lettore, in cui comprendiamo che a volte, per scacciare il male dalle proprie vite, occorre compiere delle azioni moralmente scorrette. Una storia ambigua e contraddittoria, che ci fa capire immediatamente di che pasta sono fatti gli scritti dell’autore argentino. Due sorelle sono anche i personaggi principali del racconto che dà il titolo alla raccolta, che si rivela un’autentica perla crudele, con un finale tra i più agghiaccianti che mi sia mai capitato di leggere. Una narrazione dove la malignità si nasconde nelle profondità degli animi più insospettabili.
Non mancano episodi in cui Downey ribalta il piano della realtà, addentrandosi in atmosfere oniriche e squisitamente weird. È il caso di “La pelle sensibile”, moderna ghost story, in cui l’amore può tramutarsi in un’estenuante forma di persecuzione o “I Täkis”, che ha il sapore di una favola dark e disperata. Menzione a parte poi merita “Zoo”, l’unica incursione dell’autore nella distopia, dove le differenze sociali, culturali e umane vengono portate all’estremo e convogliate nella rappresentazione atroce di uno zoo dove la pietà è un sentimento ormai dimenticato, in un futuro imprecisato che non sembra però troppo distante dal nostro presente. Particolarmente toccante è poi “Gli uomini vanno in guerra”, piccolo capolavoro sulla circolarità del tempo e del dolore che, come in un loop maledetto, continua ad affiorare, ancora e ancora.

Tomás Downey ci regala un’opera ammaliante e sconvolgente, che prende il lettore per mano e lo stringe a sé, tra inquietudini e paranoie, malinconie e brutalità. Una raccolta di racconti che tratta una tematica scomoda come i rapporti umani in maniera del tutto inedita e originale e, proprio per questo, tra i migliori libri che mi sia capitato di leggere quest’anno.

Voto: 4,5/5

Mr. P.

5 consigli per Halloween

Amo l’autunno: il caldo che se ne va, i mille colori delle foglie che appassiscono, le maglie pesanti, le tisane, le caldarroste, trascorrere le serate immersi in un libro. Soprattutto però amo l’autunno perché è l’atmosfera ideale per i racconti del terrore e le storie di fantasmi. Quale contesto migliore quindi se non l’avvicinarsi a grandi passi di Halloween, festa orrifica per eccellenza, per darvi qualche consiglio in materia? Quest’anno ho scelto tre libri, non a caso tutte raccolte di racconti, dato che per me la forma breve è perfetta per suscitare qualche brivido lungo la schiena, ma anche un film e una serie tv.
Quindi mettetevi comodi, spegnete la luce e iniziate a leggere, senza badare al temporale che imperversa fuori dalla vostra casa e a quegli strani rumori in corridoio che continuano a tenervi svegli…

ERALDO BALDINI – GOTICO RURALE

Sono sempre stato incuriosito da Eraldo Baldini e dal suo terrore associato alla campagna italiana e alle vecchie leggende contadine. Per iniziare a scoprirlo ho quindi puntato alla sua opera più conosciuta e forse miglior rappresentante di tale orrore.
Comincio subito con il dire che “Gotico rurale” è una raccolta di racconti pressoché perfetta. Ho amato l’ambientazione agreste, tra nebbie impenetrabili, sterminati campi di grano, capanne nei boschi e colline maledette, che si rivelano messaggeri di un’inquietudine tanto profonda quanto vicina a noi. I racconti di Baldini scavano a fondo nel nostro passato, portando a galla segreti e reminiscenze conturbanti, che affondano le radici in terrori ancestrali. Risvolti soprannaturali, dinanzi a cui l’uomo può soltanto piegarsi e pregare, indicibili efferatezze, vendette crudeli e misteri da custodire: Baldini in queste diciotto storie ci regala attimi di squisita paura, che ci incalzano a continuare, mai sazi, racconto dopo racconto. Grande importanza viene data ai bambini e forse proprio le vicende che vedono protagonisti i ragazzini sono quelle che lasciano addosso un maggior senso di malessere e di irrequietezza. Non manca infine anche qualche sana dose di humor nero, che però personalmente ho trovato un po’ stonato rispetto all’atmosfera che si respira nel resto dei racconti.
Gotico rurale” si è rivelata una delle migliore raccolte horror/weird che ho letto negli ultimi anni: credetemi, orrore e campagna insieme sono un mix esplosivo!

AUTORI VARI – LA BIBLIOTECA DI LOVECRAFT

La “Biblioteca di Lovecraft” è la nuova collana di Edizioni Arcoiris che si prefigge di portare in Italia classici del gotico, dell’horror e del weird, in parte inediti e in parti editi ma con nuove traduzioni.
Il primo volume prende il titolo direttamente dal nome della collana e ci propone quattro racconti di altrettanti autori elogiati dallo scrittore di Providence all’interno della sua opera saggistica. Accanto a due nomi imprescindibili nella storia della letteratura fantastica, come Ambrose Bierce e Montague Rodhes James, troviamo Edward Frederic Benson e l’accoppiata Erckmann/Chatrian, chicche da noi quasi sconosciute. Tutte le storie sono di alto livello e mescolano soprannaturale e squisite atmosfere ottocentesche, nella migliore tradizione dell’epoca d’oro delle ghost stories. L’orrore il più delle volte non si palesa direttamente ma viene evocato o suggerito, in un crescendo di inquietudine che avvolge il lettore. I fantasmi, reali o psicologici, che si aggirano tra le pagine del volume, emanano un terrore che non può prescindere dal clima e dagli ambienti che circondano i protagonisti, fonti di paura tanto quanto gli spiriti che li infestano.
Tra anziane signore vendicative, capanne nei boschi, persecuzioni e volti che ossessionano, “La biblioteca di Lovecraft” ci regala una prima raccolta davvero succulenta, curata nei minimi particolari, dalle traduzioni, fino alla bellissima grafica e alle illustrazioni interne. Un volume prezioso che inaugura una collana che, speriamo, avrà lunga vita.

AUTORI VARI – L’ORA DEGLI SPETTRI

Ricchissima antologia di storie di fantasmi, “L’ora degli spettri“, edita da Edizioni Hypnos, da sempre specializzata nella riscoperta del weird, propone al pubblico italiano ben 29 racconti, che vanno da metà Ottocento a metà Novecento, totalmente inediti al momento della pubblicazione. Pochi gli autori conosciuti, anche da chi abitualmente legge horror e gotico (esempi sono il grande Algernon Blackwood o W.W. Jacobs, da noi pluriantologizzato con il classico “La zampa di scimmia“), con grande spazio che viene lasciato a scrittori misconosciuti o i cui nomi solitamente non vengono associati alle ghost stories.
Le tematiche e le situazioni sviscerate ne “L’ora degli spettri” sono molteplici tanto che, accanto ai tipici racconti di fantasmi tanto cari al XIX secolo, in cui fanno la loro comparsa spiriti tormentati e vendicativi, che continuano ancora oggi a donare una deliziosa inquietudine, sono presenti racconti dai risvolti psicologici e meno lineari, a tratti quasi filosofici, a testimoniare come la tradizione delle storie di apparizioni soprannaturali non esaurisca il proprio fascino in stereotipi o schemi prestabiliti. Troviamo anche, a sorpresa, sprazzi di crudele ironia, a completare il quadro di un’antologia  che si rivela tutt’altro che monotematica.
Un bel compendio di racconti del terrore che farà felice chi, come me, degli spiriti proprio non può farne a meno.

JEREMY DYSON & ANDY NYMAN – GHOST STORIES

Ammetto di aver avuto qualche riserva, prima della visione di “Ghost Stories“, lungometraggio dalle tinte horror uscito nella sale italiane lo scorso anno. Ero ovviamente incuriosito ma pensavo di trovarmi di fronte al classico film dalle pieghe soprannaturali, sicuramente piacevole ma facilmente dimenticabile. Invece, per fortuna, mi sbagliavo di grosso.
Premetto subito che “Ghost Stories” non è un capolavoro di originalità ma pur nel suo “già visto” riesce a essere un ottimo film. La vicenda è incentrata su tre casi paranormali rimasti senza soluzione che vengono affidati al professore di psicologia Phillip Goodman. Le tre storie costituiscono il corpus centrale della prima parte dell’opera, rivelandosi tre buoni racconti horror ma nulla di più. Una classica pellicola del terrore come ce ne sono tante, godibile ma certo non memorabile. Ecco che però nell’ultima mezz’ora tutto cambia e quello che “Ghost Stories” sembrava essere, forse non lo è più.
Non farò spoiler perché sarebbe delittuoso ma il film della coppia Dyson/Nyman mi ha regalato uno sviluppo e un finale che ho adorato e che sono sicuro vi farà ricredere, anche a chi storcerà il naso durante la prima parte. Assolutamente perfetto per Halloween!

VEERLE BATENS & MALIN-SARAH GOZIN – TABULA RASA

Chiudiamo con “Tabula Rasa“, serie tv belga che trovate su Netflix. Prima di parlarne però, devo fare necessariamente due premesse. La prima è che “Tabula Rasa” non è una serie horror ma rientra nel filone del thriller psicologico. Tuttavia presenta elementi e atmosfere che non la farebbero sfigurare affatto come visione adatta per la notte delle streghe. La seconda è che è ingiustamente passata inosservata, fagocitata dalla miriade di serie che escono ogni mese. Vale però davvero la pena recuperarla, perché vi assicuro che “Tabula Rasa“, con i suoi innumerevoli colpi di scena, vi terrà incollati allo schermo dall’inizio alla fine.
L’idea di fondo è tanto semplice quanto intrigante: una donna, colpita da amnesia, diventa l’elemento cruciale per la risoluzione di un caso di scomparsa. Tutto giocato tra flashback che riportano a prima della perdita della memoria e il presente, in cui la donna è rinchiusa in un ospedale psichiatrico, “Tabula Rasa” regala sorprese a ripetizione, in un crescendo emozionale che trasporta lo spettatore nella mente turbata della protagonista.
Una serie tv che, pur sviluppando tematiche ed elementi a tratti non così originali, colpisce a fondo la curiosità dello spettatore, regalandoci un racconto in bilico tra crime, sfumature horror e indagine psicologica che merita di essere visto, forse più di tanti altri telefilm blasonati ma di scarsa qualità.

Mr. P.

Michele Orti Manara – Il vizio di smettere

Titolo: Il vizio di smettere

Autore: Michele Orti Manara

Editore: Racconti Edizioni

Anno: 2018

Pagine: 170

Prezzo: € 14,00

“Prenderci in giro, prenderci poco sul serio, era una cosa che facevamo sempre; quel pomeriggio però, per la prima volta da quando lo avevo conosciuto ormai tredici anni prima, mi pareva che ogni battuta ci raschiasse la gola. Si scherzava, ma ogni frase era un po’ più seria di quella prima.
Era come salire una scala verso qualcosa di poco piacevole, oppure rendersi conto di camminare nelle sabbie mobili solo quando le ginocchia sono già sprofondate.
Continuare a salire o ad andare giù, con un sorriso bugiardo stampato in faccia.”

La prima cosa che salta all’occhio de “Il vizio di smettere”, seconda opera di Michele Orti Manara, è l’incredibile copertina disegnata da Francesca Protopapa. Ognuno di quei personaggi ritratti sembra lì per te: fingono di non guardarti, apparentemente persi nei loro pensieri, ma in realtà ti scrutano, sogghignando, increspando le labbra o con il viso imbronciato. Ognuno custode di un proprio mondo interiore, tanto diversi quanto simili l’uno con l’altro. Una copertina che più azzeccata non poteva essere ma, a mio avviso, anche fuorviante. Perché i racconti di Orti Manara, oltre a irradiare i mille colori che dipingono le nostre vite quotidiane, ben rappresentati dalla cover, sprigionano una malinconia e un dolore che ricoprono di bianco e nero ogni cosa. Insomma, un acquerello dalle sfumature dense e imprevedibili.

Protagonista assoluta delle sedici storie raccolte nel volume, è l’esistenza di persone ordinarie, alle prese con lutti, amori che finiscono o che non sono mai cominciati, i bilanci delle proprie vite, incomprensioni e solitudini. Un’esistenza in cui chiunque potrà ritrovarsi, senza per questo risultare banale o stereotipata. Tutt’altro: le emozioni che si respirano a pieni polmoni negli scritti dell’autore veronese sono quanto di più autentico ci si possa aspettare. Un centrifugato di umanità che tocca nel profondo, sempre a metà strada tra inquietudine e ironia, tra la necessità di una metamorfosi e l’istinto di rimanere se stessi, nel bene e nel male. Così, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo immersi, senza via di scampo, nella verità di un ragazzino che ha perso il fratello o nell’ironia caustica che fa da sfondo a un legame d’amicizia che viene diviso da migliaia di chilometri. E diventa poi inevitabile ritrovarsi a fare il tifo per quell’adolescente solitario che quando tenta di avvicinarsi a qualcuno, finisce sempre per deluderlo. O provare tenerezza per quella donna ormai disillusa che per il suo cinquantesimo compleanno decide di bere tanti ciuputi quanti sono gli anni che compie.
Nei racconti di Orti Manara fanno però anche capolino ossessioni incontrollate, come nel geniale “L’assicurazione”, una short story che nella sua brevità ho trovato perfetta, lo sberleffo che fa sorridere il lettore (l’ottimo trittico “Tre disillusioni editoriali”) e l’ineluttabilità di un destino già scritto (“La missione”). A sorpresa, non manca anche qualche momento squisitamente surreale, come l’irresistibile gatto parlante de “La malvagità della coda” e l’enigmatico ragazzo di “Una vita in venti minuti”, forse il racconto più criptico e originale della raccolta, e proprio per questo una piccola gemma.

Viscerale, disincantato, onirico, beffardo: questo l’universo che scaturisce dalla penna dell’autore, che fa dell’ordinaria insensatezza quotidiana il suo cavallo di battaglia. Costantemente al crocevia tra picchi di dolce afflizione e spennellate di perturbante sarcasmo, “Il vizio di smettere” si dimostra una delle raccolte di racconti italiane migliori degli ultimi tempi. Sperando che, a discapito dell’irresistibile titolo, Orti Manara non si lasci contagiare e continui a sfornare piccole perle come quelle qui raccolte.

Voto: 4/5

Mr. P.

Jess Walter – Viviamo in acqua

Titolo: Viviamo in acqua

Autore: Jess Walter

Editore: Racconti Edizioni

Anno: 2017

Pagine: 204

Prezzo: € 16,00

“Ho una teoria: che questa, Las Vegas, sarà l’unica città che gli archeologi del futuro ritroveranno. Il clima secco la conserverà e le squadre di scienziati dell’anno 5000 toglieranno e scrosteranno con cura la sabbia, sotto la quale troveranno piramidi, castelli e riproduzioni della Tour Eiffel e dello skyline di New York, pertiche per la lap dance e carte con le donne nude; e questi archeologi del futuro ricreeranno la nostra intera cultura fondata unicamente su questo schifosissimo posto, cinico e superficiale.”

Avevo un ricordo sfocato di Jess Walter, legato a un romanzo che lessi parecchi anni fa (“La vita finanziaria dei poeti”) e che probabilmente avevo anche apprezzato, ma che si era perso nei meandri della mia memoria di lettore. Così quando me lo sono ritrovato davanti, con la raccolta di racconti “Viviamo in acqua”, non avevo davvero idea di cosa aspettarmi. È bastato però leggere il primo racconto, per capire di trovarmi di fronte a un libro incredibile. Nelle storie di Jess Walter ritroviamo l’ironia più arguta, la critica (non poi così velata) alla routine della vita americana e la malinconia della solitudine ma anche una carezzevole dolcezza, il grottesco della sopravvivenza quotidiana e l’illusione che si tramuta bastardamente in disillusione. Insomma, nei racconti di Jess Walter c’è tutto.

Originario di Spokane, lo scrittore statunitense ambienta la quasi totalità delle proprie storie nella sua città, cogliendo a pieno gli aspetti peggiori (con qualche piccola concessione nella parte migliore) della classe media americana, con tutto il suo carico di contraddizioni e malignità. Da situazioni al limite del paradossale, come quella di un senzatetto che con i soldi guadagnati dalle elemosine acquista l’ultimo libro di Harry Potter, scaturiscono vuoti incolmabili e dolori sinceri, rappresentati alla perfezione dallo strazio di un padre che non può vedere il proprio figlio. O al contrario quel vuoto tenta disperatamente di essere riempito da un figlio alla ricerca della storia e delle origini del padre, in un racconto a incastri, autentico gioiello, sviluppato magistralmente nella storia che dà il titolo all’opera, a mio avviso il capolavoro dell’intera antologia. Altre volte ancora il dolore si trasforma in ossessione e in autentica furia, come nell’agghiacciante “Vergine”, le cui ultime righe mi hanno lasciato addosso un inquietante senso di disagio. Disagio che si respira a pieni polmoni anche ne “Il lupo e la foresta”, in cui un’ombra scura e ingombrante allunga i suoi tentacoli sulle buone intenzioni del protagonista, creando un’apparenza disturbante, una superficie appena smossa, in cui occorrerebbe andare in profondità, per scoprire cosa si cela davvero negli abissi: tema caro all’autore e più volte riproposto.
Jess Walter però parla ai nostri cuori anche attraverso il sarcasmo più dissacrante. Basti pensare a “I re della carriola”, piccola meraviglia carica di humor, che non ha nulla da invidiare al miglior Bukowski e che mi ha strappato una risata in più di un’occasione. O ancora al tragicomico “Il ladro”, che trova nelle derisorie descrizioni di un padre dei propri tre figli, un’ironia caustica e maligna. Per non farsi mancare nulla, lo scrittore statunitense ci regala anche un’incursione nell’horror, ma sempre sui generis e filtrato dalla sua grande sensibilità. Stiamo parlando di “Non mangiare gatto”, racconto che ribalta completamente gli stereotipi sugli zombie, prendendo a prestito una creatura di cui si è già scritto tutto e riuscendo a creare qualcosa di originale.

Viviamo in acqua” non lascia scampo: l’auspicata redenzione non arriva, tra crisi d’identità, sete di vendetta, autolesionismo e velleità filantropiche. Jess Walter ci insegna che guardare dentro noi stessi, alla ricerca di una parvenza di verità, il più delle volte non è consolatorio né tantomeno salvifico. Tutto ciò che possiamo fare è continuare a vivere: se in acqua, alla stregua di pesci intrappolati in un acquario, non ci è dato saperlo.

Voto: 4,5/5

Mr. P.

Jade Sharma – Problems: stupefacenti complicazioni

Titolo: Problems. Stupefacenti complicazioni

Autore: Jade Sharma

Editore: Pidgin Edizioni

Anno: 2019

Pagine: 230

Prezzo: € 14,00

“A volte sentivo come se ci fosse qualcosa di nero al di sotto di tutto. Come un dipinto di Rothko, come se la nerezza sanguinasse attraverso le cose. Come se sentissi che ogni cosa non portasse a niente, e non potevo farci nulla. Giorni e giorni di solitudine e intorpidimento e a scopare estranei e a ricevere i soldi e a sprecarli tutti, per sapere che dopo un giorno o giù di lì ne avrei avuti molti altri. Sarebbe andato avanti così finché non mi fossero caduti i denti, finché non avrei avuto neanche la forza di tirarmene fuori. Niente figli, niente famiglia, io da sola a eccezione del terrore crescente che i miei sogni non siano riposti nel futuro ma da qualche parte alle mie spalle.”

Non so se il paragone sia pienamente calzante ma dopo appena poche pagine di “Problems: stupefacenti complicazioni”, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una sorta di Charles Bukowski al femminile aggiornato ai nostri tempi. Un paragone che però non deve fuorviare perché Jade Sharma è assolutamente originale e piena di carisma e non ha bisogno di scimmiottare il buon Charles. Quello che mi ha ricordato l’autore statunitense è quel mix esplosivo di esilarante oscenità alternata a momenti di arguta riflessione. Una combinazione letale che incolla il lettore alle pagine e provoca dipendenza.

Protagonista indiscussa di “Problems” è Maya, donna complicata dall’alquanto discutibile stile di vita. Maya è un personaggio scomodo, dipinto alla perfezione a 360°. Uno di quei personaggi che ti entrano dentro e a cui è impossibile restare indifferenti. Durante la lettura sono passato alternativamente dal desiderio di abbracciarla come faresti con un vecchio amico a cui continui a voler bene nonostante tutto a una voglia irrefrenabile di darle un bel calcio nel culo. Maya è così: un personaggio autentico, senza mezzi termini e umano all’ennesima potenza. La sua vita si alterna tra velleità da scrittrice, una tesi perennemente in fase di stesura, un matrimonio in cui si sente soffocare e un amante più anziano in cui ricerca illusoriamente il vero amore. Il tutto condito da una doppia dipendenza: dalle droghe e dal sesso. Senza dimenticare l’avversione/attrazione verso il cibo (vedi alla voce: bulimia).
Narrato in una irriverente prima persona, “Problemsè un’immersione senza salvagente nella psicologia autodistruttiva di Maya. Una discesa in un vortice impetuoso, dove gli appigli che conducono a un’esistenza cosiddetta “normale” si fanno sempre più rari, mentre la vita di Maya scivola via ogni giorno più velocemente, prossima al collasso. E a nulla serve Peter, marito sì alcolizzato, ma che la ama di un amore autentico, forse unico vero baricentro in grado di dare una parvenza di equilibrio alla realtà fuori dagli schemi in cui vive Maya. Così come a nulla serve Ogden, l’anziano amante a cui la protagonista chiede invece con tutta se stessa di essere amata per quello che è, senza riserve e senza inibizioni. Una preghiera che resterà inascoltata.
Personaggi dalle mille sfaccettature, che ruotano tutti intorno alla narratrice, in un caleidoscopio di umanità che, nel suo piccolo, riflette alla perfezione le contraddizioni della società moderna. Ritroviamo così le difficoltà nel trovare un lavoro e nel riuscire a tenerselo stretto, per non parlare di un impiego che faccia sentire realizzati: pura utopia. La mercificazione del corpo, in un mondo dove ormai il sesso è diventato soltanto trasgressione e violazione. E ancora la violenza, fisica o psicologica, che sfocia nel razzismo e mette in luce una moralità che ormai è un vetro opaco oltre cui non si scorge più nulla. Infine la dipendenza, qui sviscerata in più declinazioni, che porta l’esistenza di chi ne è affetto a un circolo vizioso senza inizio e né fine, dove ciò che conta è soltanto la prossima busta di eroina o la prossima bottiglia di liquore. E non basta la volontà di ripulirsi e disintossicarsi: il percorso di riabilitazione di Maya e di chi le sta intorno viene trattato con caustica ironia, tra promesse di redenzione sempre rimandate al giorno dopo e crisi di astinenza il cui risultato fallimentare è già stato scritto.

Problems: stupefacenti complicazioni” è un romanzo che fa della crudezza e della derisione i suoi punti di forza, regalando attimi di sagace indagine all’interno di noi stessi, che instillano nel lettore dubbi e domande scomodi ma necessari. Un esordio potente, che arriva dritto allo stomaco e al cuore, assestando colpi precisi e dolorosi. Lasciandoci a fine lettura a leccarci le ferite, storditi ma più consapevoli.

Voto: 4/5

Mr. P.

Autori vari – Calles: tredici racconti dalla Bolivia

Titolo: Calles. Tredici racconti dalla Bolivia

Autori: AA. VV.

Editore: Gran Vía

Anno: 2018

Pagine: 203

Prezzo: € 15,00

“Quando Álvaro aveva annunciato la sua partenza, Vanessa inizialmente aveva provato tristezza, presto convertita in quella specie di strano piacere che genera la profezia autocompiaciuta; come quando camminiamo nella penombra sapendo che va tutto bene, ma è inevitabile pensare che da qualche parte possa esserci nascosto qualcuno, o che in quel momento, proprio quello, tra tutti i momenti di cui è fatta la vita, avverrà il primo contatto con un’anima in pena o con il diavolo. Siamo convinti di vedere qualcosa e che quello sia l’attimo più emozionante della nostra esistenza. Terrore e piacere simultanei. Finché non si accende la luce e constatiamo che se qualcosa c’è, è stato lì da sempre.”

Mi sono avvicinato alla letteratura sudamericana soltanto negli ultimi anni, ma quando penso ai romanzi e ai racconti che scaturiscono dalle penne di autori latini, subito mi saltano alla mente paesi come l’Argentina o il Cile, quest’ultimo in particolare rappresentato da Roberto Bolaño. Per fortuna, a sdoganare la letteratura (da noi) misconosciuta di alcuni paesi dell’America del Sud, ci sta pensando Gran Vía, attraverso la pubblicazione di una serie di antologie, ciascuna dedicata a una specifica nazione. Dopo Messico, Cuba e Cile, è la volta della Bolivia, la cui scena letteraria è ancora un territorio inesplorato per i lettori italiani. La raccolta che ci propone Gran Vía comprende tredici racconti di altrettanti autori, in un caleidoscopio emozionale che avvince e stupisce.

Calles” presenta una nuova generazione di scrittori boliviani, tutti nati dopo il 1970, a eccezione di Edmundo Paz Soldán, nato nel 1967 e che probabilmente ha dato il via alle nuove voci qui raccolte. Uno scenario florido e variegato, che tratta temi universali, adattandoli alla geografia urbana boliviana, in modo diretto e senza compromessi.
Così la violenza, sia essa premeditata che totalmente casuale, e per questo forse anche più spaventosa, ci viene sbattuta in faccia senza tanti preamboli. È ad esempio il caso di Marcelo, il giovane protagonista di “Tutti realizzano i propri sogni tranne me” di Wilmer Urrelo Zárate, uno dei racconti maggiormente sperimentali dell’intera raccolta, che da carnefice diventa vittima designata, in una escalation di brutalità che lascia turbati o la repentina e accidentale esplosione di aggressività de “La giapponese” di Saúl Montaño, che lascia il lettore assolutamente disorientato. La violenza però può anche essere solo lasciata intuire, come nel soffocante “Nel bosco” di Giovanna Rivero, che insinua sotto pelle supposizioni dai contorni angoscianti, o portare alla disgregazione e alla rottura dei fragili equilibri interni che regolano la famiglia. Proprio i delicati legami famigliari e le loro incrinature, sono al centro della gran parte dei racconti raccolti in “Calles”. “Foto di famiglia” di Liliana Colanzi e “La casa grande” di Rodrigo Hasbún sono esempi perfetti di drammi famigliari racchiusi in una manciata di pagine, in cui la malattia e la vecchiaia aleggiano sui personaggi come terribili spauracchi o segreti che non devono essere rilevati. A volte però la sicurezza confortevole del nucleo famigliare può essersi dissolta nel nulla, come accade alla solitaria protagonista di “Afferrare” di Natalia Chávez Gomes Da Silva, che imparerà sulla propria pelle a ricostruire da zero una nuova esistenza. In altre, invece, tale sicurezza non è mai esistita: basti pensare alla narratrice di “Deforme” di Fabiola Morales, che fin dall’adolescenza sostituisce le figure assenti dei genitori con la fotografa Dorothea Lange e la pittrice Frida Kahlo.
Menzione a parte meritano “Gringo” di Maximiliano Barrientos e “Dochera” del già citato Edmundo Paz Soldán. Il primo è un incubo del passato che torna a bussare prepotentemente nelle vite tranquille del narratore e della sua famiglia: un piccolo capolavoro onirico e allucinato, forse il mio preferito dell’intera antologia. Il secondo è la deliziosa analisi della psiche di un cruciverbista che si scopre innamorato, tra squarci di tenerezza e incantevole follia.

Calles” è una raccolta piena di sorprese, che mostra le mille piccole sfaccettature della quotidianità. La lettura di queste tredici storie incuriosisce e ci immerge in un panorama letterario che pare abbia davvero parecchio da dire. Un primo passo alla scoperta della Bolivia, sperando che il futuro ci riservi la traduzione di altre opere di questi validi autori.

Voto: 4,5/5

Mr. P.

Alexandra Kleeman – Intuizioni

Titolo: Intuizioni

Autore: Alexandra Kleeman

Editore: Edizioni Black Coffee

Anno: 2018

Pagine: 240

Prezzo: € 15,00

“Ci sono volte in cui il semplice essere al mondo equivale a strofinare la pelle nuda sulla carta vetrata, in cui ogni tipo di movimento produce un’abrasione lasciandoti ferito e vulnerabile alla prossima aggressione. Quando capita, preferisco chiudere gli occhi e restare immobile, immobile come i bicchieri o le candele o il pane sul tavolo, abbandonata, esposta.”

Alexandra Kleeman è una giovane scrittrice statunitense portata in Italia da Edizioni Black Coffee inizialmente con il suo romanzo d’esordio, “Il corpo che vuoi” (già letto, amato e recensito qui) e, successivamente, con “Intuizioni”, la sua prima raccolta di short stories. Un paio di anni fa ho avuto l’occasione di conoscerla durante una presentazione e non sono riuscita a trattenermi: ho dovuto dirle che il suo libro era uno dei più strani che avessi mai letto! Chiaramente, era un complimento – anche se non so esattamente come sia suonato alle sue orecchie. Non è semplice trovare storie davvero particolari e originali, al giorno d’oggi, e ricordo in modo molto vivido le sensazioni provate durante la lettura, sensazioni che si sono verificate nuovamente con questa raccolta (in maniera forse ancora più accentuata!).

I dodici racconti di “Intuizioni” sono suddivisi in tre sezioni diverse. Pur non avendo dei nomi precisi ma soltanto un’indicazione numerica (I, II, III), è impossibile non notare che questa tripartizione indica una sorta di ciclo vitale (nascita, esistenza, morte) quasi rivisitato: le storie narrate infatti si riferiscono ai tre diversi momenti in modo metaforico. La Kleeman tiene a mente i concetti riportati sopra ma li amplia, giocando con le varie sfumature che queste tre fasi fondamentali della vita possono assumere. Non è un caso, infatti, che in “La maestra di danza” (prima sezione) la nascita descritta non sia una reale venuta al mondo ma la comparsa di un ragazzino selvatico in società, il suo pseudo addomesticamento da parte di un’insegnante tramite la danza, il cambiamento che cerca di farsi strada in una natura che si ribella. Allo stesso modo, nella seconda parte, emergono una serie di diapositive della vita quotidiana di una donna, Karen (che sia lo stesso personaggio o che siano tante Karen diverse non ci è dato saperlo). Infine, nella parte conclusiva, la morte è tangibile e reale (come in “Sangue finto”, un racconto dalle tinte horror che disorienta e provoca disagio) ma anche metaforica, come nel conclusivo “Tu, che scompari” (intenso e commovente, la vera perla di questa raccolta), in cui ad eclissarsi misteriosamente sono ricordi, cose, persone. Non si pensi però che le short stories scritte dalla Kleeman si attengano soltanto a ciò: sono lavori originali, molto diversi uno dall’altro, alcuni così particolari e su più livelli da apparire di difficile interpretazione. Nello specifico, tre di questi sono rimasti a me oscuri: “Breve storia del bello e cattivo tempo”, un racconto lungo quasi cinquanta pagine in cui una famiglia cerca di costruire una casa indipendente dal tempo meteorologico; “Ilemorfismo”, un’immersione nel mondo degli angeli; ed infine “Fame di un coniglio”, che non credo di aver compreso del tutto ancora adesso. La sensazione che il lettore prova addentrandosi in “Intituizioni” è inizialmente di spaesamento: molti dei racconti sono pervasi da un senso imminente di minaccia, di soffocamento, d’incubo. Maestri nel fare ciò sono, per esempio, “Favola”, la storia di una ragazza che si ritrova circondata da fidanzati e pretendenti invadenti e inquietanti, “Cena di aragosta”, che ci mostra come una vacanza tranquilla possa essere turbata da un’invasione di aragoste e “Intuizione”, un racconto claustrofobico in cui una donna si ritrova intrappolata in un appartamento, a vivere una vita che sembra non conoscere. Alcune delle short stories che ho apprezzato di più, però, fanno parte della sezione centrale, in cui i contorni onirici si fanno più sfocati ed è possibile osservare la bravura della Kleeman nel ritrarre persone normali ed esistenze quasi banali. I rapporti interpersonali, la paura, l’amore, la voglia di fuggire, la maternità, la solitudine vengono esplorate con tatto e profondità ed è improbabile non rivedersi, almeno in parte, in una di quelle tre Karen.

Risulta difficile, dunque, riassumere alla perfezione quest’opera: è variegata, originale, a tratti disturbante e surreale. Le ambientazioni sono perlopiù realistiche ma hanno sempre qualcosa di particolare, qualcosa che ci fa storcere il naso, soprattutto quando ci accorgiamo dell’attenzione posta sui particolari da parte dell’autrice. Ci sono riflessioni su oggetti e concetti che difficilmente vengono presi in considerazione, si analizzano spesso nei dettagli e, se inizialmente ci apparivano futili o insignificanti, a tratti ci sembrano poi ostili, conturbanti. Un senso di confusione non indifferente può prendere il sopravvento sul lettore – ed è forse questo il motivo per cui non sono riuscita ad amarla del tutto – ma è necessario tenere presente anche un sottile velo comico che si nasconde dietro questi dodici racconti, un umorismo cinico e nero che più di una volta ha trovato un’espressione sul mio viso: parlo di quei sorrisi stiracchiati che si fanno quando si è a disagio, quando si cerca di mantenere la calma ma in realtà ci si scopre turbati nel profondo.

Voto: 3,5/5

Mrs. C.