Yambo – Gli esploratori dell’infinito

Titolo: Gli esploratori dell’infinito

Autore: Yambo

Editore: Cliquot

Anno: 2017

Pagine: 288

Prezzo: € 25,00

“Io amo questa piccola isola celeste che voi chiamate capocchia di spillo, trottola indecente, caricatura di mondo. […] L’amo perché ci ha sollevati nell’azzurro, perché ci ha fatto superiori agli altri uomini, perché ha permesso al nostro pensiero di innalzarsi a vette inaccessibili  agli altri figli della Terra… perché ha dato modo a noi – sciagurati mortali – di gettare un timido sguardo nell’abisso, dove i segreti dell’Essere degli esseri sono raccolti!”

Il libro che ho tra le mani è l’ennesimo, importante recupero di un manoscritto “dimenticato” operato dalla casa editrice romana Cliquot, realtà editoriale che confeziona dei piccoli gioielli letterari, sia dal punto di vista della traduzione che dell’estetica e della cura tipografica. La seconda uscita della “Collana Fantastica” ha riportato sugli scaffali delle librerie Yambo, all’anagrafe Enrico Novelli, scrittore e illustratore italiano del primo Novecento. Considerato uno dei principali anticipatori della fantascienza nel nostro Paese, Yambo è autore di svariati romanzi collocati nel filone della narrativa per ragazzi, di cui “Gli esploratori dell’infinito” è ritenuto il capolavoro. Ma leggerlo aspettandosi un “semplice” libro per ragazzi è fuorviante: “Gli esploratori dell’infinito” è infatti un romanzo che non ha età, che diverte e appassiona qualsiasi generazione, continuando a farlo oggi come lo faceva nel 1908, data della sua prima pubblicazione.

L’elemento scatenante dell’intera vicenda è la scoperta di Cupido, un bolide che staziona a dodicimila metri dal suolo terrestre, diventando così un nuovo, microscopico satellite del nostro pianeta. L’incredibile rivelazione attira immediatamente l’attenzione del miliardario filantropo Harry Stharr, che sogna di abbandonare la meschinità e la corruzione della Terra per fuggire sul nuovo pianetino e vivere così una vita semplice e pura. Per attuare il suo proposito, chiede aiuto al capo redattore del suo giornale Giorgio Halt, esatto opposto del benefattore, con la sua indole egoista. Halt infatti accetta soltanto per lo spropositato stipendio che Stharr gli promette. Una volta giunti sul bolide, viaggiando su un aerostato, per i due protagonisti comincerà l’avventura autentica, una vera e propria esplorazione dell’infinito. Non mancheranno un manipolo di marziani (che Yambo chiama “marziali”), una banda di falsari, temperature glaciali e climi tropicali, dissertazioni scientifiche e addirittura l’organizzazione di una festa di capodanno interplanetaria. E poco importa se all’epoca Plutone non era stato ancora scoperto ed è il grande assente nel bizzarro viaggio di Stharr e Halt. Ciò che davvero rende il romanzo dello scrittore toscano un viaggio senza tempo, godibilissimo anche a oltre un secolo di distanza, è il senso del meraviglioso che sprigiona ogni sua pagina. Prodigi e stramberie si alternano in una danza frenetica, che cattura il lettore di allora come quello di adesso, sbalordendo sia adulti che ragazzi. Una grande mano in tal senso la danno anche le splendide 71 illustrazioni che accompagnano la narrazione, ad opera dell’autore stesso. Ma la storia scaturita dalla penna di Yambo non esaurisce qui il suo potenziale. Infatti sotto la superficie fantastica e d’intrattenimento si può scorgere una critica al buonismo quasi esasperato di Harry Stharr, cieco verso la realtà e capace soltanto di morali e prediche che non portano da nessuna parte. L’autore ci fa comprendere come sia impossibile sfuggire alla miseria d’animo che regna sulla Terra (non per nulla su Cupido i vizi e la grettezza della banda di falsari la faranno da padroni) e che bisognerebbe invece affrontare i problemi in modo pratico e risoluto. Anziché fuggire occorre accettare l’uomo con tutte le sue contraddizioni e i suoi difetti.

Gli esploratori dell’infinito” è un’escursione nell’utopistico e nel sensazionale, una folle chimera che non ha perso un briciolo del suo fascino. Un libro da leggere per lasciarsi trasportare in un mondo lontano e avveniristico, a tratti fiabesco a tratti crudele, con la mente proiettata verso l’infinito ma con lo sguardo ben saldo verso il nostro Pianeta.

Voto: 4/5

Mr. P.

Fritz Leiber – La cosa marrone chiaro e altre storie dell’orrore

Titolo: La cosa marrone chiaro e altre storie dell’orrore

Autore: Fritz Leiber

Editore: Cliquot

Anno: 2017

Pagine: 302

Prezzo: € 18,00

“Quanti di noi che vivono in una grande città sanno cosa c’è dentro o al di là delle pareti che delimitano il nostro appartamento, persino quelle contro cui dormiamo? Nascoste e inarrivabili come i nostri organi interni. Non possiamo neanche fidarci delle mura che ci proteggono.” 

Fritz Leiber, autore che si è addentrato in ogni meandro della letteratura fantastica, dalla fantascienza al fantasy (è stato infatti tra i precursori dello sword and sorcery), passando per l’horror e il weird, nel nostro Paese, dopo gli anni ’80, non ha più goduto di vita facile. A riportare nelle librerie italiane uno dei maggiori esponenti del fantastico del secolo scorso, ci ha pensato la casa editrice Cliquot, che ci ha già stupiti in passato (e siamo certi continuerà a farlo) con recuperi oculati e preziosi.
La cosa marrone chiaro e altre storie dell’orrore” è una raccolta di racconti mai tradotti in Italia e pubblicati originariamente sulle principali riviste pulp dell’epoca, tra cui la storica “Weird Tales”. Ma il termine “mai tradotti” non equivale, in questo caso, a minori. Anzi, il volume raccoglie una fetta significativa della produzione horror dell’autore, raccolta in ordine cronologico, così da rendere partecipe il lettore dell’evoluzione stilistica e tematica di Leiber.

Il racconto che apre le danze, “La villa del ragno”, è un esempio emblematico delle storie del terrore che tanto piacevano alle riviste di genere degli anni quaranta. Un mistero che si dipana pagina dopo pagina, in un vortice che mescola folli esperimenti scientifici, un enigmatico anfitrione, una creatura mostruosa e una donna da salvare. Insomma, tutti ottimi ingredienti per creare una tipica storia dell’orrore. Con “Il signor Bauer e gli atomi”, influenzato dallo scoppio atomico di Hiroshima, ci addentriamo nei territori della fantascienza. Una manciata di pagine in cui la psicosi del protagonista e gli atomi del suo corpo costituiscono gli elementi caratterizzanti. In “Qualcuno urlò: strega!” torniamo a un classico della letteratura horror: un essere femminile ammaliante e fatale, dai poteri soprannaturali. Un racconto forse fin troppo tradizionale e a mio avviso l’episodio più debole dell’intera raccolta. “Il demone del cofanetto” ci offre invece il primo assaggio di quell’esplorazione del subconscio che Leiber svilupperà più compiutamente nei racconti a venire. L’idea alla base della storia è a dir poco geniale: un’attrice che svanisce poco a poco non appena la sua vita e le sue vicende personali smettono di essere sulla bocca di tutti. La celebrità come vera e propria forma di sostentamento. Un’aspra critica alla società mediatica, che si basa sull’apparenza e sul successo. Un autentico gioiellino. Si prosegue con “Richmond, fine settembre, 1849″, in cui Leiber scomoda un mostro sacro della letteratura, immedesimandosi nei suoi pensieri e nelle sue azioni, a seguito di un incontro casuale con un’affascinante quanto misteriosa signora. Un incontro che forse non si rivelerà così accidentale. Arriviamo poi al vero capolavoro della raccolta: “La cosa marrone chiaro”, che dà anche il titolo al volume. Prima e più corta stesura di “Nostra signora delle tenebre”, forse il romanzo più rappresentativo dell’intera produzione dello scrittore americano, “La cosa marrone chiaro” esprime la personalissima visione del mondo di Leiber. Il senso di confusione e di vero e proprio terrore di fronte all’immensità delle metropoli moderne, in cui in ogni anfratto possono nascondersi inquietanti pericoli. Una sensazione acuta di smarrimento che attanaglia il protagonista, perso in una San Francisco che prende vita, il cui punto nevralgico è la collina di Corona Heights. Un racconto incredibile che vi terrà incollati alle pagine fino alla fine. La concezione postmoderna dell’autore si riflette anche nel successivo “Fantasie paurose”, dove lo spazio si restringe dalla città a un condominio, in un cui un’enigmatica figura femminile (altro tema ricorrente), turberà la monotonia della vita del protagonista. Il volume si conclude con “Il nero ha il suo fascino”, folle monologo di una moglie verso il proprio marito. Completano il tutto la preziosissima introduzione del curatore e traduttore Federico Cenci e un’appendice in cui lo stesso Leiber racconta del proprio turbolento rapporto con la rivista “Weird Tales”.

La cosa marrone chiaro e altre storie dell’orrore” si rivela una raccolta preziosa che sprigiona un concentrato d’inquietudine sotterranea. Un terrore che striscia sottopelle e che può annidarsi nei muri del proprio appartamento, in un ascensore, in un parco. Una paura dalle mille sfaccettature, che prende il via dal gotico più classico per invadere le megalopoli moderne. Racconti che sussurrano il proprio carico di angoscia, avviluppando il lettore in un vortice, senza più lasciarlo andare.

Voto: 4/5

Mr. P.

Sherwood Anderson – Riso nero

Titolo: Riso nero

Autore: Sherwood Anderson

Editore: Cliquot

Pagine: 222

Anno: 2016

Prezzo: € 16,00

“Le persone sono come gocce d’acqua in un fiume che scorre. All’improvviso il fiume si altera. Diventa carico di furiosa energia, a va a ricoprire le terre, sradica gli alberi, travolge le case. Si formano piccoli mulinelli. Certe gocce d’acqua vengono trascinate in circoli vorticosi, toccandosi costantemente tra loro, mescolandosi tra loro, assorbendosi l’una nell’altra. Ci sono momenti in cui gli esseri umani smettono di essere isolati. Ciò che sente uno, lo sentono gli altri. Si potrebbe dire che, in certi momenti, uno lascia il proprio corpo ed entra, completamente, nel corpo di un altro. L’amore potrebbe essere qualcosa di simile.”

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Quando si parla di letteratura americana con la “L” maiuscola, i nomi a cui si fa più spesso riferimento sono i soliti noti: Hemingway, Faulkner, Steinbeck, tanto per citarne alcuni. Ma il più delle volte manca all’appello proprio l’autore che con il proprio modo di narrare ha influenzato questi grandi scrittori: Sherwood Anderson. Noto soprattutto per la raccolta di racconti “Winesburg, Ohio”, dalla penna di Anderson sono usciti anche dei grandi romanzi americani, colpevolmente passati in sordina nel nostro Paese. Uno di questi è proprio “Riso nero”, opera scritta nel 1925, che negli anni Trenta Cesare Pavese ha voluto fortemente “esportare” anche in Italia, occupandosi personalmente della traduzione. Nel 2016 ci pensa Edizioni Cliquot a riproporla ai lettori italiani, in una bellissima edizione e con una nuova traduzione.

Riso nero” narra le vicende di John Stockton, giornalista di Chicago, ingabbiato in una professione che da tempo ha smesso di esercitare il suo fascino e legato a Bernice, una donna con pretese letterarie e frequentatrice delle élite culturali della città. Ma le convenzioni e le regole di cui sono intrisi gli ambienti sociali che li circondano, mettono John a disagio, tanto che la sua insoddisfazione raggiunge il culmine, portandolo in una banale serata come tante altre, ad abbandonare la moglie e Chicago. John vuole dare un taglio netto al passato, così inizia la sua peregrinazione navigando lungo il Mississippi e fermandosi qualche tempo a New Orleans, ma il suo viaggio prosegue fino a terminare ad Old Harbor, cittadina in cui è cresciuto. Per evitare di farsi riconoscere, cambia nome in Bruce Dudley, e lì ricomincia la sua nuova vita. Per poter guadagnare qualche soldo trova impiego in una fabbrica di ruote di proprietà di Fred Grey, il cittadino più ricco e importante di Old Harbor. L’inquietudine e il senso di insofferenza che provava costantemente a Chicago sembrano placarsi, immerso in un quotidiano semplice e senza menzogne. Qui fa la conoscenza di uno dei personaggi meglio riusciti del romanzo di Sherwood: il vecchio operaio Sponge Martin, energico ed esuberante nonostante la sua età, che ha l’abitudine di ubriacarsi insieme alla moglie una volta al mese, quando cade il giorno di paga. L’anziano Sponge è un fulgido esempio di americano vecchio stampo, un concentrato di vita e di passione a cui è impossibile resistere. Ma proprio quando l’esistenza di Bruce sembra stabilizzarsi, con il semplice ma onesto lavoro alla fabbrica e le domeniche passate a pranzare a casa di Sponge, un fulmine torna ad incendiare la sua vita. Basta infatti lo scambio di uno sguardo con Aline Aldridge, la bella moglie del suo titolare Fred Grey, per destabilizzarlo nuovamente. Aline è il secondo grande protagonista di “Riso nero”: figlia di un ricco avvocato americano, conosce il suo futuro marito a Parigi, subito dopo la fine della guerra mondiale. Donna passionale e istintiva, si accorge di aver commesso un errore nello sposare Fred Grey: nonostante sia il cittadino più potente ed importante di Old Harbor, e lei la donna più invidiata, questo non le basta. Ogni giorno che passa si rende conto che la sua vita è costruita su un muro di falsità, un muro che lentamente si sta sgretolando. Così, dal primo momento in cui i suoi occhi si posano sul viso di Bruce, capisce di desiderarlo con tutta se stessa, complice anche il fatto che le ricorda un uomo da cui era stata attratta a Parigi, proprio la stessa sera in cui conobbe Fred. Dopo un primo momento in cui Bruce pare indeciso, anche lui comprende che tra loro sta nascendo un’attrazione che non si può ignorare. Decide quindi di licenziarsi dalla fabbrica e si fa assumere come giardiniere alle dipendenze dei Grey, così da poter passare più tempo possibile insieme ad Aline. Il loro comportamento inizia a destare sospetti in Fred, che però, nonostante ami sua moglie, non fa nulla per separarli. Particolarmente significativo è l’episodio in cui Grey risale di sera il sentiero collinoso che lo conduce al cancello della sua abitazione ed è seguito qualche passo indietro da Bruce, che rientra da alcune commissioni in paese. Fred si sente quasi braccato dal giovane manovale, tanto che accelera il passo per poter trovare rifugio in casa. Sembra che i ruoli si invertano e che il padrone, impotente, diventi succube dell’operaio. La narrazione culmina il giorno in cui Fred va ad una parata militare, lasciando Bruce ed Aline soli per tutto il pomeriggio. Situazione che porterà a delle conseguenze definitive. E a fare da sottofondo a tutto il romanzo il riso nero del titolo, ovvero le risate, a volte gioiose, altre volte quasi maledette, dei neri d’America. In particolare le due domestiche di colore dei Grey, che assistono alla relazione tra Bruce e Aline, e le cui risate risuonano per tutta la casa.

La scrittura di Sherwood Anderson ci catapulta direttamente negli Stati Uniti degli anni Venti, seguendo solo a tratti il filo logico della narrazione, intervallandola con frequenti flashback e rincorrendo i sentieri tortuosi dei pensieri dei protagonisti. “Riso nero” è un romanzo che va assaporato lentamente, per potersi perdere nelle vite di Bruce e Aline, esistenze dolorose ma piene di passioni violente e di incredibile voglia di vivere.  Uomini e donne che si spogliano davanti a noi di tutte le loro più intime debolezze, rendendoci spettatori privilegiati delle profondità dell’animo umano. Un romanzo che racchiude dentro di sé tutta l’America.

Mr. P.

Voto: 4/5