Audur Ava Ólafsdóttir – Hotel Silence

Titolo: Hotel Silence

Autore: Audur Ava Ólafsdóttir

Editore: Einaudi

Anno: 2018

Pagine: 188

Prezzo: € 18,50

“Mi sembra quasi di sentire la voce della mamma: «Ogni sofferenza è unica e differente, – aveva detto una volta – e dunque non la si può confrontare. Invece la felicità è simile».”

Oggi vi svelo un pezzetto di me: sono incredibilmente attratta dai libri che parlano di suicidio. Forse per via di quello che studio, forse per alcune esperienze di vita, forse semplicemente perché è un tema complesso, a tratti inspiegabile, “affascinante” proprio per questo motivo. Non conoscevo la Ólafsdóttir ma appena ho letto la trama del suo ultimo romanzo, “Hotel Silence”, ho immediatamente detto fra me e me: “Dev’essere mio”. Perché? Perché il protagonista della storia narrata dall’autrice islandese è un quarantanovenne che decide di porre fine alla sua vita. Jónas è un uomo le cui certezze sono crollate una dopo l’altra, velocemente: sua moglie se n’è andata, chiedendo il divorzio e lui è rimasto inerme a guardarla scivolare via dalla sua esistenza, senza provare a fermarla. Ha da poco scoperto che Guðrún Vatnalilja, sua figlia, non è biologicamente sua figlia, particolare che la ex consorte gli rivela ben ventisei anni dopo la sua nascita. Sua madre trascorre le giornate in una casa di riposo, alternando momenti lucidi in cui si dedica alla sua passione più grande (i libri che parlano di guerre) e altri in cui si perde completamente a causa della sua malattia, che la porta a dimenticare e a ripetersi di continuo. Ha un vicino di casa, Svanur, che sembra quasi un amico ma è tanto oscuro quanto lui e non tocca una donna da otto anni. Pensa che il mondo sarà lo stesso, con lui o senza di lui, e che non abbia più nulla da offrirgli. È, insomma, infelice: «Io non so chi sono. Non sono niente, non possiedo niente». Ed è a questo punto che giunge l’idea di svanire completamente. Per non causare un ulteriore trauma alla figlia, la quale potrebbe ritrovare il suo corpo, decide di andare a morire all’estero, in un Paese appena uscito da una guerra civile devastante e, più precisamente, all’Hotel Silence. Porta con sé pochissime cose, tra cui una cassetta degli attrezzi – per riparare qualcosa? no, più probabilmente per aiutarsi nell’impresa – e i diari di quando aveva vent’anni, ritrovati da poco. Lascia un vago biglietto e parte, concedendosi una settimana per “concludere la faccenda”.

Fino a qui, Jónas si presenta come un uomo insofferente ma allo stesso tempo determinato: ha imboccato una via e ha intenzione di proseguire su quella strada. Ciò con cui non ha fatto i conti, però – ed è questo uno dei particolari preziosi che fanno di “Hotel Silence” un romanzo bellissimo e molto realistico – è la vita stessa, il cambiamento che può portare il ritrovarsi in un luogo completamente differente da quello a cui si è abituati, vicino a persone che hanno vissuto cose diverse dalle nostre. L’incontro con i giovani gestori dell’albergo, Fífí e Maí – fratello e sorella -, con il piccolo Adam e la loro realtà, si rivela dunque provvidenziale. Il protagonista comincia a riflettere sulla sua vita, sull’estraneità che prova nei suoi confronti: si guarda allo specchio e non si riconosce; comprende, rileggendo i suoi quaderni, che forse non ha mai capito chi è, pur essendoselo sempre domandato. L’autrice mette in luce l’importanza del riscoprirsi altrove, del sentirsi di nuovo utili, circondati da persone nuove, che racchiudono dentro di loro esistenze lontanissime dalle nostre. È il potere dei legami che, a volte, ci permettono di ritrovare uno scopo, anche quando tutto sembrava ormai perduto. Lasciarsi andare è difficile, certo, e ci si sente vulnerabili: ma se Jónas inizialmente copriva le sue cicatrici (quelle interiori, rimanendo chiuso in se stesso, e quelle esteriori, con i tatuaggi), lentamente comincia a comprendere quanto sia fondamentale smettere di nascondersi.

Una delle cose che ho particolarmente apprezzato di questo romanzo sono le riflessioni sul dolore: è ribadita più volte, infatti, l’importanza del concetto che ognuno soffre a suo modo. Ogni sofferenza è diversa, la si vive in modo differente ed è inutile compararla a quella degli altri. Il protagonista spesso tende a farlo, si interroga moralmente sulle sue intenzioni: come può permettersi anche solo di pensare al suicidio quando ci sono persone che hanno visto morire i propri cari a causa della guerra e che, nonostante questo, si aggrappano con tutte le loro forze alla vita? È giusto, è sbagliato? Alcuni mali sono più devastanti di altri? Non si dovrebbe fare il paragone, ci dice l’autrice, semplicemente. Ognuno ha una propria sensibilità ed è con quella che deve convivere.

“Hotel Silence” è un libro che parla in modo disincantato del suicidio: non tralascia né le sue zone d’ombra (il dolore, a volte, può comunque vincere) né quelle di luce – la rinascita. La Ólafsdóttir è bravissima nel mostrare come si possa faticosamente essere in grado di uscire dal mare di fango in cui si è precipitati. È possibile riparare una vita che si è rotta? Questa la domanda che ci si pone. «Si cerca di fare del proprio meglio» – sembra risponderci la scrittrice – «Essendo esseri umani.»

Voto: 4,5/5

Mrs. C.

 

James Graham Ballard – L’isola di cemento

Titolo: L’isola di cemento

Autore: James Graham Ballard

Editore: Feltrinelli

Anno: 2013

Pagine: 155

Prezzo: € 7,50

“A mano a mano che girovagava, Maitland scoprì che il suo corpo e il dolore nella gamba gli importavano sempre meno. Incominciò a rimuovere quel guscio, dimenticando dapprima l’arto offeso e poi tutte e due le gambe, cancellando qualsiasi coscienza dei bruciori al petto e al diaframma. Sorretto dall’aria fredda avanzò fra l’erba, riguardando con tranquillità quei tratti di paesaggio che nei giorni precedenti aveva imparato a conoscere così bene. Identificando l’isola con se stesso, contemplò le auto nello spiazzo dello sfasciacarrozze, il recinto di rete metallica e il cassone di cemento alle sue spalle. Fece dei gesti al loro indirizzo, nel tentativo di compiere un circuito dell’isola che gli permettesse di lasciare i vari pezzi di sé al posto giusto: la gamba destra nel punto dell’incidente, le mani ferite impalate sulla recinzione. Il petto, poi, dove si era seduto, contro il muro di cemento. In ogni punto una piccola liturgia avrebbe significato un passaggio di impegno da verso se stesso a verso l’isola. Parlò ad alta voce, come un prete che celebri l’eucaristia del proprio corpo.
«Io sono l’isola.»”

A piccoli ma determinanti passi per il mio bagaglio di lettore, prosegue la conoscenza di uno dei maggiori autori di fantascienza (ma non solo) del secolo scorso: James Graham Ballard. Affascinato da un titolo dal sapore post apocalittico (ma che in realtà cela tutt’altro) e da una trama che dà pochi punti di riferimento al lettore, la mia scelta è ricaduta su “L’isola di cemento“, romanzo pubblicato nel 1974 ma che conserva un’attualità sconvolgente.

Un banale incidente automobilistico è il pretesto per dare il via alla narrazione, che vede nell’architetto trentacinquenne Robert Maitland il protagonista indiscusso. Uscita di strada, la sua Jaguar si ritrova semidistrutta nel bel mezzo di un’isola spartitraffico che divide l’autostrada alle porte di Londra. Ferito ma sopravvissuto alla sciagura, Maitland si rende conto di essere intrappolato nell’isola, quasi un universo parallelo di sterpaglie, blocchi di cemento e carcasse d’auto. Dopo i primi tentativi di fuga falliti miseramente, essendo l’isola circondata da declivi difficoltosi da scalare per la gamba lesa del protagonista, in Maitland inizia a scattare l’impietoso ingranaggio dell’istinto di sopravvivenza, accendendo nella sua coscienza un senso di sfida e una spietatezza che mai avrebbe pensato di avere. Assistiamo così a una metamorfosi progressiva e inarrestabile, dove lo scenario degradato dell’isola diventa quasi una provocazione per Maitland e la necessità di sopravvivere corre in parallelo a una cinica competizione: assumere il controllo totale dell’isola. Quel lembo di terra diviene per l’architetto più significativo del mondo che sta appena a qualche centinaia di metri di distanza. Addirittura più importante della moglie, del figlio e dell’amante. L’isola assume connotati quasi sacri, finendo con identificarsi sempre più con l’interiorità del protagonista, sporcando la sua coscienza con macchie di ruggine indelebili. Maitland scopre angoli spigolosi della propria mente che sfiorano la disumanità, recessi bui della propria psiche portati alla luce dalla volontà pura e semplice di non morire. Una crudeltà di cui ne faranno le spese anche i misteriosi abitanti dell’isola, in una gara di sopravvivenza che si sposta dalla fuga al dominio di quel tratto di suolo abbandonato.
Oltre a tutto ciò, Maitland incarna anche l’essere umano alienato e confinato dalla modernità e dal progresso nella propria misera solitudine. Un individuo dagli istinti sopiti e tenuti accuratamente a bada che tenta di ritrovare se stesso nella primordiale vita selvaggia in cui viene catapultato dopo l’incidente. L’isola così assume il doppio aspetto di prigione e di portatrice di libertà, a metà strada tra essere carnefice e assolutrice.

L’isola di cemento” è un’opera potente e disincantata, che trasporta il lettore, con la violenza di un pugno nello stomaco, in una dimensione parallela dai contorni tanto inquietanti quanto realistici. Una dura critica alla cultura del progresso, in cui l’uomo, nudo e indifeso, viene posto di fronte alla crudele sfida della sopravvivenza. Perché dopotutto, davanti alla nostra parte più intima e ai nostri istinti più reconditi, tutti noi regrediamo alla nostra vera e pura natura: dei semplici essere umani.

Voto: 4/5

Mr. P.

Stefano Caso – Libreria Luigi

Titolo: Libreria Luigi

Autore: Stefano Caso

Editore: Ianieri Edizioni

Anno: 2017

Pagine: 187

Prezzo: € 14,00

“Una maschera. Per tanti anni avevo calzato una maschera. Pelosa, per di più. Un fantasma nero a cui avevo chiesto soccorso per fare di me un personaggio dotto e rispettabile. Un artificio che credevo divenisse potere per me e sudditanza per gli altri. E invece, lo avrei scoperto più tardi, era stata una raffinata difesa nei confronti della vita, dei miei desideri più genuini.”

Cosa significa “festeggiare” i propri cinquant’anni scoprendo che quanto si ritiene di più autentico e motivo d’orgoglio di tutta la propria vita, in realtà si tramuta in una gigantesca menzogna raccontata a se stessi?  Che come ci si vede allo specchio non corrisponde affatto all’idea che si sono costruiti di noi chi ci sta intorno? A questi quesiti prova a dare una risposta Stefano Caso, che nel suo “Libreria Luigi“, romanzo dal sapore pirandelliano, narra appunto le vicissitudini di Luigi Araldi, libraio che, dopo aver compiuto mezzo secolo, viene investito da un incredibile ciclone di eventi che cambieranno per sempre la sua esistenza.

Il turbine incontrollabile di tradimenti, rimorsi, vendette e rimpianti prende il via dalla poco gentile ma certamente innocua considerazione di un’anziana cliente che, all’affermazione di Luigi sul suo cinquantennale compleanno, risponde:
«Tanti auguri allora. Cinquanta? Lei porta la sua età in maniera davvero pietosa. Gliene avrei dati almeno una decina di più. Ma, come si dice, l’importante è essere giovani dentro. Non trova?»
Parole che hanno sul povero libraio l’effetto di un ferro rovente sulle carni vive: idealmente marchiata a fuoco da quella donna, la sua mente inizia a vorticare pericolosamente in cerca di un appiglio, rappresentato dalla tanto sbandierata cultura, l’unica cosa che lo ha sempre reso fiero e superbo. Ma proprio il suo aspetto fisico, tanto denigrato dalla vecchia signora, è il baluardo esterno del suo amore sconfinato per i libri e il sapere: barba spessa e scura e i pochi capelli rimasti portati lunghi. Segni distintivi che vengono per la prima volta messi in discussione e che sono soltanto l’inizio di una metamorfosi tanto imprevedibile quanto spassosa. Perché l’ironia, nel libro di Caso, non manca mai. Più di una volta, leggendolo, mi sono ritrovato a  sorridere, in particolare quando i fantasmi letterari del libraio in crisi esistenziale prendono il sopravvento. Lord Wotton, Vitangelo Moscarda, Charles Bukowski, Luigi Pirandello, Victor Hugo e chi più ne ha, più ne metta. Una girandola di personaggi appartenenti alla finzione letteraria e di autori passati a miglior vita infestano le giornate di Luigi, dispensando consigli non richiesti e lanciando maligne provocazioni.
Libreria Luigi” è un romanzo che affronta l’eterna paura di invecchiare e l’annosa questione dell’apparire agli altri, finendo così per mentire anche se stessi, ma sempre con la dovuta leggerezza e la giusta dose di umorismo. La trama non troppo originale viene compensata dallo stile dell’autore, scorrevole ma non banale, che alterna in un ripido saliscendi espressioni quasi auliche, che ritroviamo perlopiù nei pensieri del protagonista, che fa sfoggio della propria cultura anche parlando tra se e se, e il parlato di tutti i giorni.

Stefano Caso ci propone una lettura leggera ma che sa anche offrire momenti di riflessione. La storia di una vita ordinaria e abitudinaria che sprofonda in una crisi tanto destabilizzate quanto necessaria. Un mutamento improvviso dai risvolti tragicomici ma che, almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha segretamente desiderato che avvenisse anche nella propria esistenza.

Voto: 3,5

Mr. P.

Pablo Simonetti – Vite vulnerabili

Titolo: Vite vulnerabili

Autore: Pablo Simonetti

Editore: Edizioni Lindau

Anno: 2018

Pagine: 184

Prezzo: € 18,00

“L’unica cosa che riuscii a ricavare dalla confusione dei miei sentimenti fu il bisogno di mettere fine a un dolore che mi accompagnava da anni. Era come se la mia ombra si fosse ostinata a rimanere indietro, costringendomi ad aspettarla, senza permettermi di avanzare. Volevo finalmente riunirmi a lei, o abbandonarla lungo la strada, pronto a sopportare il lutto per la sua perdita.” 

Non conoscevo Pablo Simonetti, autore cileno classe ’61, che ha esordito nel 1999 con la raccolta di racconti “Vite vulnerabili“. Proprio il suo esordio letterario è stato tradotto e portato nel nostro Paese dai sempre attenti ragazzi di Edizioni Lindau, ponendo così un nuovo, importante tassello nel grande mosaico della letteratura sudamericana sbarcata in Italia.
Partendo proprio dal titolo, posso affermare con assoluta certezza che nessun altro aggettivo avrebbe potuto identificare meglio le dodici storie narrate da Simonetti: la vulnerabilità è il tratto distintivo degli uomini e delle donne che popolano le pagine inquiete della raccolta.

Simonetti, pur concedendosi qualche piccola fuga in Europa, tratteggia una provincia cilena dai contorni nostalgici e sfocati. Quartieri sonnolenti e grigi, a tratti quasi fantasma, abitati da persone le cui vite annaspano in un mare di disillusione, tra ossessioni e struggenti ricordi, alla costante ricerca di un appiglio per non affogare. Appiglio che può essere rappresentato da una sospirata e rischiosa avventura extra coniugale, da manie ossessivo compulsive sempre più stranianti o ancora dalla presenza confortante  di un anziano, il cui silenzio si tramuta nell’unica cosa in grado di donare pace e serenità. Tanti sono i temi affrontati dallo scrittore cileno e tutti con una sensibilità fuori dal comune e una spiccata introspezione psicologica. La solitudine dei rapporti umani, l’incomprensione di gesti e parole, spesso proprio tra chi dovrebbe essere avvolto da una tenera intimità, l’alienazione dei legami familiari o ancora il desiderio smodato di trasgressione e di fuga dalla realtà. Simonetti, con il suo stile fluido e mai banale, riesce a districarsi nell’ingarbugliata matassa dei sentimenti umani con grande delicatezza e inaspettata profondità, senza mai scadere nel melenso. Esempi cristallini sono “Il Giardino di Boboli“, inquieto scorcio del viaggio di nozze in Italia dei protagonisti o “Dal silenzio“, toccante intrusione nella vita del narratore di uno strano vecchio taciturno. La narrazione di Simonetti sa però essere anche spietata e incisiva, acuendo gli angoli appuntiti delle zone d’ombra dell’animo umano anziché mascherarli con un rassicurante tentativo di smussarli. Come in “Santa Lucía“, dove l’eccitazione di una passeggiata notturna si tramuta in smarrimento e tormento o in “Finale di finale“, in cui la finale di un torneo di bridge metterà il protagonista con le spalle al muro, a fare i conti con la propria vita.
Esempi perfetti delle due anime dei racconti di Simonetti sono “Amore virtuale” e “Senza pietà“, entrambi incentrati su di un amore omosessuale ma completamente agli antipodi. Se il primo commuove per la sua dolcezza infinita e il delicato struggimento che si respira in ogni pagina, il secondo è uno schiaffo in pieno volto, feroce e disturbante. Sentimenti contrastanti e di un’intensità tale che soltanto i grandi autori sono in grado di far sprigionare nell’arco di una manciata di pagine.

Vite vulnerabili” è una collezione di esistenze tormentate, gravida di sentimenti nascosti, che scavano in profondità nel lato più oscuro dell’esistenza umana, tra incubi e brame non soddisfatte, lasciando però spazio alla purezza degli affetti sinceri. Dodici piccoli capolavori di umanità: imperfetta, straziata, avvilita ma proprio per questo così vicina a noi.

Voto: 5/5

Mr. P.