I migliori dischi del 2017

Ci siamo appena lasciati alle spalle il 2017 ed è giunto quindi il momento di dare un ultimo sguardo indietro, questa volta non per quanto riguarda le letture ma dal punto di vista musicale. L’anno appena trascorso si è rivelato ricco di uscite discografiche particolarmente interessanti. Ho scoperto nuovi artisti, le cui note sono entrate dritte nel mio cuore, e ci sono stati grandi ritorni di band che amo. Ho stilato una mia personalissima top 20, con un focus particolare sulle prime dieci posizioni. Tra rivelazioni, colonne sonore e grandi ritorni, è giunto il momento di iniziare!

10. DARDUST – SLOW IS (BALLADS FOR PIANO AND STRING QUARTET LOST IN SPACE)

Dopo i primi due dischi di una trilogia che si concluderà nei prossimi mesi, Dardust (all’anagrafe Dario Faini), sforna uno stupendo lavoro di rivisitazione di alcuni pezzi che compongono i suoi primi due album. Messe da parte le derive elettroniche di “Birth”, il compositore di Ascoli Piceno riarrangia una manciata di vecchi brani per piano e quintetto d’archi. Il risultato è un crescendo d’emozioni, in cui la matrice intimistica e malinconica dell’esordio “7” torna a fare da padrona, regalando picchi di autentico lirismo. Completano il disco due struggenti inediti, che spero siano il sintomo della piega che prenderà in futuro la musica di Dardust, che ho sempre maggiormente apprezzato quando il pianoforte prende il sopravvento.
Best track: Gravity

9. DEPECHE MODE – SPIRIT

Il 2017 ha visto anche il ritorno dei Depeche Mode con “Spirit”: sicuramente un album non perfetto ma pieno di carattere e chiara testimonianza di quanto i Depeche Mode si possano permettere di miscelare elettronica, sentimento e testi graffianti senza mai risultare banali. L’apertura è fulminante con “Going backwards”, per chi scrive tra i migliori pezzi dell’anno, per proseguire poi con l’incalzante “Where’s the revolution?” e l’elettronico delirio di “Scum”, non dimenticando le aperture melodiche come “The worst crime” e “Cover me”. Non manca ovviamente il cantato di Martin che dà, come sempre, ottime prove nella cinematografica “Eternal” e nella eterea “Fail”. Il terzetto inglese continua a non sbagliare un colpo.
Best track: Going backwards

8. WILSEN – I GO MISSING IN MY SLEEP

Ho conosciuto i Wilsen nel 2016 grazie alla stupenda “Centipede“, traccia d’apertura del disco, e  aspettavo con molta curiosità il loro esordio ufficiale, se si esclude il primo album autoprodotto. L’attesa è stata ben ripagata da un lavoro intenso e raffinato. Chitarre acustiche, atmosfere rarefatte e testi intimistici sono gli ingredienti per questo “I go missing in my sleep”. Memore dei primi Daughter, il terzetto di New York ci regala grandi pezzi come la sognante “Heavy steps”, l’eleganza malinconica di “Emperor” o l’ottimo singolo “Garden”. Ma il meglio i Wilsen ce lo riservano nel finale con la dolcezza della bucolica “Final” e la cupa scia strumentale di “Told you”. Un esordio promosso a pieni voti.
Best track: Centipede

7. DAUGHTER – MUSIC FROM BEFORE THE STORM

I Daughter, che nel 2016 avevano dato alle stampe il mio disco dell’anno, si riaffacciano sulle scene anche nel 2017. Questa volta però componendo la colonna sonora del videogioco “Life is strange”. Musiche altamente immaginifiche (come ogni buona colonna sonora che si rispetti dovrebbe essere) si alternano a pezzi più canonici, in cui svetta la stupenda voce di Elena Tonra. Atmosfere rarefatte e crescendo strumentali (l’opener “Glass” o la magnifica “Witches”) vanno a braccetto con canzoni dal piglio decisamente più rock e sperimentale (“Departure” e “Dreams of William”). Non mancano però i classici pezzi alla Daughter, come le due perle del disco “All I wanted” e “A hole in the heart”. Anche con i vincoli imposti dalle colonne sonore, i Daughter hanno saputo tirare fuori un grande lavoro.
Best track: A hole in the heart

6.  ÓLAFUR ARNALDS – BROADCHURCH: THE FINAL CHAPTER

Altra colonna sonora: questa volta si tratta del bravissimo musicista islandese Ólafur Arnalds e delle musiche composte per la serie tv “Broadchurch”, per il sottoscritto tra i migliori telefilm degli ultimi anni. Arnalds si era già occupato di musicare le prime due stagioni, ponendo il suo sigillo musicale anche su questo terzo e ultimo capitolo. In questo caso, almeno per quanto mi riguarda, musica e immagini vanno a braccetto. La splendida colonna sonora, a volte eterea, altre cupa, altre intrisa di una struggente mestizia, è perfetta per accompagnare la malinconia che si respira durante tutta la serie. Basta chiudere gli occhi per ritrovarsi di colpo tra le scogliere di “Broadchurch”. Il mio consiglio quindi è quello di guardare prima il telefilm, per poi assaporare al meglio le musiche: non ve ne pentirete.
Best track: The final chapter

5. STARSAILOR – ALL THIS LIFE

L’anno appena passato ha visto anche il ritorno sulle scene musicali degli Starsailor, una delle band che hanno segnato la mia adolescenza e che mancavano con un album di inediti dal 2009. La formula del quartetto inglese è sempre la stessa: chitarre acustiche, la voce cristallina di James Walsh e testi introspettivi. Non mancano però le sortite in territori più rock come il bellissimo primo singolo “Listen to your heart” o l’energia di “Best of me” o gli azzardi sperimentali di “Caught in the middle” o di “Fia (fuck it all)”, con lo stupendo tappeto strumentale finale. Ma è in episodi che richiamano i primi Starsailor che i nostri sanno prenderci il cuore in mano senza esitazioni, su tutti “Sunday best” e  “Break the cycle”, autentici gioiellini del disco. Un ritorno che convince.
Best track: Sunday best

4. ELBOW – LITTLE FICTIONS

Poche band sanno essere raffinate e delicate come gli Elbow. Lo conferma anche l’ultimo lavoro “Little fictions”, che mette in chiaro fin da subito il fatto che ci troviamo davanti a un grande disco. L’apertura è infatti affidata a “Magnificent (she says)”, che con i suoi archi, per il sottoscritto, è forse il miglior pezzo del 2017. Ma “Little fictions” è pieno di sorprese: dalle percussioni di “Gentle storm” agli oltre otto minuti della sperimentale title track, passando per il pop luminoso di “All disco”. Una nuova prova di maturità per la band inglese, che si dimostra ancora una volta costruttrice di canzoni perfette.
Best track: Magnificent (she says)

3. GIULIA’S MOTHER – HERE

Il duo piemontese è stata la mia rivelazione musicale del 2016 con lo stupendo “Truth”. Il 2017 li ha visti tornare con “Here”, un piccolo capolavoro ancora più bello dell’esordio. Chitarra acustica, batteria e la bella voce di Andrea Baileni gli ingredienti, ma con una maggiore consapevolezza nei propri mezzi e un pizzico di sperimentazione in più. Così, a ballate classiche dal sapore malinconico come la struggente “Memory” o la delicata “Closeness”, si alternano i sei minuti di cavalcata di “Consciousness”, le atmosfere desertiche del magnifico primo singolo “Past” o ancora il viaggio onirico di “Who are you?”. Graditissime sorprese sono “Oltre”, il primo pezzo in italiano della band, che dimostra di cavarsela benissimo anche con la nostra lingua, e la cover dei Beatles “Long long long”. Un secondo disco folgorante: dei Giulia’s Mother state certi che ne sentiremo parlare ancora a lungo.
Best track: Consciousness

2. AMBER RUN – FOR A MOMENT I WAS LOST

Non conoscevo gli Amber Run ma ho capito che mi sarei innamorato del loro secondo disco non appeni ho letto il titolo. E così è stato: “For a moment I was lost” è stata un’autentica rivelazione. Premetto che non si tratta di nulla di innovativo o di non ancora sentito, ma il quartetto di Nottingham è riuscito a sfornare una manciata di canzoni incredibili. Si passa dal pop malinconico di “Fickle game”, al rock nervoso di “Perfect”, all’oscurità elettrica di “Dark bloom”. Ma gli Amber Run sanno affascinarci anche con il crescendo della tormentata “Wastelands”, l’indie rock praticamente perfetto di “Stranger” o il piano rarefatto di “Are you home?”. Semplicità ed emozionalità vanno a braccetto in un disco che farà la felicità degli amanti di band come gli Snow Patrol, i Doves o i primi Coldplay.
Best track: Dark bloom

1. THE NATIONAL – SLEEP WELL BEAST

Sul gradino più alto del podio non potevano che esserci loro. I The National tornano con un piccolo capolavoro in cui hanno abbandonato in parte i territori conosciuti sviluppati con gli ultimi dischi, per addentrarsi in sonorità più ardite e sperimentali. Già il primo singolo, l’ottima “The system only dreams in total darkness”, aveva messo in chiaro che non ci saremmo trovati di fronte ai soliti National. Impressione confermata dal rock sgangherato di “Turtleneck”, dal tappeto elettronico della parlata “Walk it back” o dall’oscurità impenetrabile della title track. Non mancano però episodi 100% National come la fantastica “Day I die”, la struggente malinconia di “Guilty party” o la nostalgica “Carin at the liquor store”. Un disco perfetto, in cui tradizione e innovazione (riferendoci sempre al passato musicale della band) si mischiano in maniera esemplare. Un disco che ci accompagnerà ancora a lungo nei prossimi mesi.
Best track: Guilty party

Ed eccovi la seconda parte della classifica, con le posizioni dalla 11 alla 20 e il consiglio della best track per ogni disco:

11. FEEDER – ARROW
Best track: Veins

12. SAMUEL – IL CODICE DELLA BELLEZZA
Best track: Qualcosa

13. VANCOUVER SLEEP CLINIC – REVIVAL
Best track: Someone to stay

14. KOMMODE – ANALOG DANCE MUSIC
Best track: Captain of your sinking ship

15. SOHN – RENNEN
Best track: Rennen

16. CHARLIE FINK – COVER MY TRACKS
Best track: Someone above me tonight

17. COLDPLAY – KALEIDOSCOPE EP
Best track: A L I E N S

18. THE SHINS – HEARTWORMS
Best track: So now what

19. MEW – VISUALS
Best track: The wake of your life

20. ANOHNI – PARADISE EP
Best track: Paradise

E il vostro 2017 musicale com’è stato? Quali sono i dischi che vi hanno accompagnato durante i mesi appena trascorsi? Fatecelo sapere!

Mr. P.

I migliori dischi del 2016 – Seconda parte

Come promesso siamo arrivati alla parte alta della classifica. Dieci dischi che sono andati a braccetto con l’anno che è appena giunto al termine e che mi hanno regalato, ognuno in un modo diverso e particolare, grandi emozioni e sensazioni. Non resta che farveli scoprire!

10. DENTE – CANZONI PER META’

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Il 2016 ha visto anche il ritorno di uno dei miei cantautori preferiti, ossia Giuseppe Peveri in arte Dente. “Canzoni per metà” è un disco particolare, in cui Dente ha voluto suonare interamente tutte le parti strumentali e in cui ha deciso di abbandonare parzialmente e destrutturare la forma canzone tradizionale, fatta di strofa e ritornello, per confezionare 20 pezzi inconsueti e originali, alcuni privi di ritornelli, altri costituiti solamente da ritornelli. I testi, come sempre, pescano a piene mani nelle relazioni e nei rapporti interpersonali. Troviamo così pezzi assolutamente geniali come “Canzoncina” e “Curriculum” o canzoni impregnate della tipica malinconia e tenerezza a cui ci ha abituati Dente come “L’ultima preoccupazione” e “Noi e il mattino“. Un disco che oserei definire sperimentale e a cui occorre dedicare parecchi ascolti, per scovarne il cuore pulsante e non lasciarlo più.
Best track: Noi e il mattino

9. GIULIA’S MOTHER – TRUTH

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I Giulia’s Mother sono stati l’autentica rivelazione del mio 2016. Duo piemontese, armati di chitarra acustica e batteria, i due ragazzi sanno incantare e sorprendere, con melodie cristalline e intrise di malinconia. Tra le dieci tracce del disco troviamo l’emozionante cavalcata sonora “Say Nothing“, proseguendo con la struggente “Siù” e la spensierata “Green field“, per approdare all’oscura e toccanteOnly darkness and me“. Per non parlare del finale, che riserva bellissime sorprese con la strumentale e dagli echi islandesi dei Sigur Rós “Butterfly” e la chiusura “U“, in cui basta chiudere gli occhi per ritrovarsi seduti su di una spiaggia con il mare che lento lambisce i nostri piedi nudi. Un esordio folgorante che non può che far ben sperare per i lavori futuri della band.
Best track: Siù

8. TURIN BRAKES – LOST PROPERTY

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Torna a fare capolino anche il folk dei Turin Brakes, band pioniera del new acoustic movement, corrente musicale britannica dei primi anni 2000. Dopo il picco dei primi due dischi, la carriera del duo britannico è sempre proseguita con buoni risultati, tra dolci melodie e sferzanti chitarre. “Lost property” non smentisce il tipico sound della band, offrendo momenti tipicamente e squisitamente Turin Brakes come l’allegro singolo “Keep me around” o il pop malinconico della stupenda “Save you“. “Lost property” presenta però anche nuovi spunti sonori come il gospel dell’intima “Brighter than the dark” o la chiusura affidata al cupo tappeto sonoro di “Black rabbit“. I Turin Brakes continuano a proporci quello che sanno fare meglio e ogni volta è una delizia per le nostre orecchie.
Best track: Save you

7. ÓLAFUR ARNALDS – ISLAND SONGS

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Che anno sarebbe senza un disco di Ólafur Arnalds? Il musicista islandese questa volta ha deciso di registrare otto pezzi in sette settimane, ognuna trascorsa in una diversa location della natia Islanda, con ciascuno canzone registrata insieme ad un artista locale. Ciò che ne è venuto fuori è un disco di rara bellezza, colmo di melodie struggenti che cullano l’ascoltatore, trasportandolo tra fiordi ghiacciati e case di legno in cui arde un fuoco scoppiettante. “Árbakkinn” si apre con un componimento recitato dal poeta Einar Georg, tra tocchi di piano e archi tormentati, mentre in “Particles” spicca la voce angelica di Nanna Bryndís Hilmarsdóttir degli Of Monsters And Men. I cori femminili di “Raddir” inquietano e incantano allo stesso tempo e il piano di “Doria” ci accarezza in modo suadente. Un disco che è un vero e proprio viaggio, che saprà regalare grandi emozioni a chi si lascerà trasportare senza remore.
Best track: Doria

6. RICHARD ASHCROFT – THESE PEOPLE

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Dopo sei anni dalla delusione di “RPA & The United Nations of Sound“, torna sulla scena musicale Richard Ashcroft. L’ex leader dei The Verve riesce finalmente a sfornare un ottimo disco pop, degno del suo esordio solista. Le sonorità sono lontane anni luce dal sound sporco e psichedelico dei The Verve: a questo però ci si deve rassegnare. Ashcroft da solista ha sempre e solo scritto pezzi pop, ma quando lo ha fatto bene ha tirato fuori dei veri gioiellini. “These people” si apre con la danzereccia “Out of my body“, dal ritmo sincopato che non può far battere il piedino anche ai detrattori del cantautore britannico. Ma il punto forte di “These people ” è l’eterogeneità del sound: troviamo infatti il sapore country di “They don’t own me“, gli archi di “This is how it fells” e ancora la splendida ballataPicture of you” (che non avrebbe affatto sfigurato in un dico dei The Verve) o il pop cristallino della title track. Un disco variegato ed emozionante, che sicuramente ha fatto storcere il naso a chi rimane legato al passato di Ashcroft: io, pur continuando ad adorare i vecchi dischi dei The Verve, ho preferito voltare pagina e immergermi in questo ottimo “These people“.
Best track: Picture of you

5. SOPHIA – AS WE MAKE OUR WAY (UNKNOWN HARBOURS)

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Qui devo fare un enorme mea culpa per non aver mai tenuto in giusta considerazione i Sophia (che con i miei gusti musicali vanno a nozze), “scoprendoli” solamente nel 2016 con un mezzo capolavoro come “As we make our way (unknown harbours)“, disco di una delicatezza e una raffinatezza fuori dal comune. Basti pensare al singolone “Resisting“, uno dei migliori pezzi dell’anno, alla struggente “Don’t ask“, alla delizia acustica “The drifter“, dove basta chiudere gli occhi per ritrovarsi distesi su di un altopiano americano, o ancora all’inno “California“. Peccato per un paio di riempitivi che fanno calare la qualità globale del disco, che altrimenti sarebbe entrato senza dubbio in top 3. Una grande prova di classe per Robin Proper-Sheppard e la sua band, che hanno confezionato un album che ci accompagnerà ancora per molto.
Best track: Resisting

4. FEEDER – ALLA BRIGHT ELECTRIC

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Altra band che amo e che purtroppo in Italia non ha mai avuto il successo che merita, sono i gallesi Feeder. Autori di veri e propri capolavori, il trio ritorna con “All bright electric“, disco che sa miscelare i momenti più rock e duri che hanno caratterizzato la band fin dalle origini a episodi più malinconici e delicati, troppo spesso accantonati negli ultimi lavori del gruppo. Alla prima categoria appartengono sicuramente l’esplosiva “Holy water” e l’oscura “Geezer“, ma i pezzi da novanta del disco arrivano quando Grant Nicholas e compagni abbassano il tiro, come nella tormentata “Oh Mary“, nell’epicità di “Another day on earth” o nei cori malinconici di “Slint“. “All bright electric” è uno tra i migliori lavori della band degli ultimi anni, con sonorità e testi in puro Feeder style. Non brillerà certo per originalità, ma quello che abbiamo sempre chiesto ai Feeder sono melodie cristalline, chitarre graffianti e la bella voce di Grant Nicholas ad arricchire il tutto. E anche questa volta il trio ha fatto centro.
Best track: Another day on earth

3. THE VEILS – TOTAL DEPRAVITY

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Finn Andrews e soci si riaffacciano sulle scene musicali dopo tre anni e lo fanno in grande stile: “Total depravity” è infatti un album dal cuore oscuro e pulsante, che miscela melodia e sperimentazione, alternando classici pezzi alla The Veils con veri e propri azzardi sonori. Si capisce che i ragazzi non scherzano già dall’opener “Axolotl“, in cui la voce distorta di Andrews più che cantare, declama su di un tappeto sonoro impazzito o dall’elettronica e cupa “King of chrome“. Ma nel disco trova anche posto il rock desertico di “Low lays the devil“, la stupenda ballata acustica “Iodine & iron” o il pop sofisticato di “Swimming with the crocodiles“. Una prova di grande maturità, per una band che si è conquistata un posto di tutto rispetto nel panorama alternative mondiale e che spero verrà riconosciuta per il valore che realmente esprime.
Best track: Iodine & iron

2. RADIOHEAD – A MOON SHAPED POOL

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Il 2016 è stato sopratutto il ritorno dei Radiohead dopo, a mio avviso, il deludente “The king of limbs” uscito nel lontano 2011. In “A moon shaped pool” la band di Oxford mette parzialemnte da parte l’elettronica, di cui aveva abusato nelle ultime prove in studio, e ritorna ad una strumentazione più classica. Il nuovo corso sonoro intrapreso da Thom Yorke e soci si intuisce già dall’ottimo singolo “Burn the witch“, in cui tornano a predominare le chitarre, o dalla stupenda “Daydreaming“, in cui la voce angelica di Yorke si appoggia ad un delicato e onirico tappeto sonoro. Delizie per le nostre orecchie sono anche la tetra “Decks dark“, la pseudo latineggiante “Present tense” o la tanto attesa, e finalmente arrivata, struggente versione in studio di “True love waits“, un dei migliori pezzi dei Radiohead in assoluto. Attendere cinque questa volta ne è davvero valsa la pena.
Best track: Daydreaming

1. DAUGHTER – NOT TO DISAPPEAR

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Dopo il capolavoro “If you leave“, i Daughter sfornano un secondo disco che eguaglia in bellezza, e raffinatezza lo stupendo esordio. Il suono della band si fa più corposo e pieno, abbandonando parzialmente le atmosfere acustiche e rarefatte a cui ci avevano abituato. Il sapore vagamente dream pop di “New ways” ci fa subito comprendere di essere di fronte ad un disco eccezionale. Ogni traccia è un piccolo capolavoro di intensità emotiva e ricercatezza: le chitarre ariose di “How“, la sperimentazione di “Alone/With you“, il canto disperato e libero di “To belong” o ancora i sei minuti di pura perfezione di “Fossa“, un’analisi cruda e lucida di una storia d’amore intrisa di dolore, con una struggente coda strumentale. Non ci sono dubbi che il mio disco dell’anno sia questo secondo album dei Daughter, con la speranza che la banda di Elena Tonra continui a strapparci il cuore ancora per molto, molto tempo.
Best track: Fossa

In ultimo vi segnalo ancora una manciata di dischi che non sono rientrati in classifica, essendo best of, ep o live:

  • Lanterns on the lake – Live in concert
  • Massive Attack – Ritual spirit ep
  • Massive Attack – The spoils ep
  • Moderat – Live
  • Nada Surf – Peaceful ghosts
  • Placebo – Life’s what you make it ep
  • Placebo – A place for us to dream

E il vostro 2016 musicale come è stato? Quali sono i dischi che vi hanno accompagnato durante i mesi appena trascorsi? Fatecelo sapere!

Mr. P.

I migliori dischi del 2016 – Prima parte

Anche quest’anno è arrivato il momento di tirare le somme sugli ascolti musicali di questo 2016, stilando la lista dei dischi le cui note hanno fatto da sfondo alle mie giornate, accompagnando i momenti più intensi dell’anno che sta per terminare. I dodici mesi appena trascorsi sono stati più generosi rispetto al 2015, per quanto riguarda le uscite discografiche che sono maggiormente nelle mie corde. Così ho deciso di consigliarvi non dieci, ma venti album, suddividendoli in due articoli, sperando che le mie segnalazioni vi portino a scoprire e ad apprezzare nuova musica. Perché, come disse Nietzsche, “senza musica la vita sarebbe un errore.”

20. BANKS & STEELZ – ANYTHING BUT WORDS

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Se ad inizio anno mi avessero detto che avrei inserito nella lista dei dischi che più ho amato nel corso del 2016 un album hip hop, probabilmente mi sarei messo a ridere. Non ho nulla contro l’hip hop, ma è quanto di più distante ci sia dal genere di musica che amo. Invece ci sono voluti Paul Banks degli Interpol e RZA dei Wu-Tang Clan a farmi ricredere, con il loro progetto Banks & Steelz. “Anything but words” è un album che sa miscelare sapientemente il ritmo e l’aggressività dell’hip hop con il cantato oscuro e mesto di Banks, creando pezzi unici e trascinanti come la bomba sonora “Giant”, la latineggiante “Love and war” o “Conceal”, dal retrogusto che sa di Massive Attack. Non mancano gli episodi smaccatamente hip hop e che mi hanno fatto storcere un po’ il naso, ma nel complesso “Anything but words” si è rivelato un disco che trascende i generi e regala un’ora di piacevole intrattenimento sonoro.
Best track: Giant

19. NADA SURF – YOU KNOW WHO YOU ARE

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Ritorno leggermente sottotono per i Nada Surf che, dopo il bellissimo “The stars are indifferent to astronomy” del 2012, confezionano un nuovo disco meno intriso della consueta malinconia che ha caratterizzato gli ultimi lavori della band newyorkese. “You know who you are” resta comunque un album godibilissimo, che passa con disinvoltura dal pop malinconico dello stupendo singolo “Believe you’re mine”, al rock spensierato della title track, passando per la ballata dal sapore folk “Animal“. Tra ottimi testi e atmosfere da on the road americano, l’album scorre via che è un piacere, anche se a tratti si fatica a distinguere un pezzo da un altro. Ma si sa che i Nada Surf non hanno mai brillato per originalità, lacuna compensata da sempre con pezzi che ti entrano dentro per non mollarti più.
Best track: Believe you’re mine

18. MARBLE SOUNDS – TAUTOU

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I Marble Sounds sono una band belga che ha fatto del pop malinconico e delicato il proprio marchio di fabbrica. Ingiustamente sconosciuti nel nostro paese, i Marble Sounds hanno confezionato in questo 2016 “Tautou”, il loro terzo disco, caratterizzato dalla voce quasi sussurrata del frontman Pieter Van Dessel, da una profusione di archi e da chitarre sognanti ed eteree. Esempio perfetto sono l’opener “The ins and outs”, un piccolo capolavoro, o la bella “Ten seconds to count down”, in cui echeggiano rimandi ai Sigur Rós. C’è però anche spazio per episodi più ritmati come “Set the rules” o il singolo “The first try” o per la commistione con il francese nella raffinata “Tout et partout”. I Marble Sounds hanno sfornato un album prezioso, che mi auguro potrà essere scoperto e amato come merita.
Best track: The ins and outs

 17. DARDUST – BIRTH

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Dopo lo stupendo “7”, composto interamente a Berlino, torna Dardust con “Birth”, registrato a Reykjavic e secondo episodio di un’ideale trilogia, che si concluderà con il terzo capitolo che vedrà protagonista Londra. Questa volta Dario Faini, il nome che si cela dietro a Dardust, abbandona parzialmente le atmosfere rarefatte e oniriche dell’esordio per virare decisamente verso un suono più elettronico e danzereccio. Basta citare il primo singolo “The wolf” o “Take the crown“, in collaborazione con Bloody Beetroots, per capire la nuova strada intrapresa da Faini. Anche se, per quanto riguarda il sottoscritto, sono ancora i momenti eterei e intrisi di malinconia le vere perle del disco: su tutti cito la titletrack e la struggente “Slow is the new loud”, con dolcissimi archi a farla da padroni. Una svolta stilistica che regala un ottimo disco, in bilico tra dancefloor e intimismo.
Best track: Slow is the new loud

16. LOCAL NATIVES – SUNLIT YOUTH

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Per apprezzare “Sunlit youth”, terzo lavoro della band statunitense, bisogna dimenticare quel capolavoro che è “Hummingbird” e il suo registro sonoro ancorato all’indie folk delicato e sognante. I Local Natives con il loro terzo disco cambiano decisamente rotta e confezionano un album dalle sonorità smaccatamente pop. Ma come in tutti i contesti, anche in questo caso bisogna fare le dovute distinzioni: i cinque ragazzi americani ci regalano infatti un pop di grande qualità, senza sbavature e dove ogni suono è inserito perfettamente all’interno dei pezzi. Si passa dall’elettro pop di “Villainy” all’epicità di “Fountain of youth”, passando per quel gioiellino acustico che è “Ellie Alice” al pop sgangherato di “Psycho lovers”. Ve lo ripeto: la ricetta è dimenticare “Hummingbird” e tuffarsi nei coretti e nelle tastiere di “Sunlit youth”.
Best track: Fountain of youth

15.  AFTERHOURS – FOLFIRI O FOLFOX

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Dopo la mezza delusione di “Padania”, la band capitanata da Maunuel Agnelli torna con un doppio disco, intimo e potente nello stesso tempo. “Folfiri o Folfox” è pieno di grandi canzoni, degne dei migliori Afterhours: basti pensare alla stupenda ballata “Non voglio ritrovare il tuo nome“, al blues sporco di “Né pani né pesci” o ancora al rock elettronico di “Fa male solo la prima volta” o all’inno esistenziale “Se io fossi il giudice”. L’unica pecca è forse proprio l’eccessiva prolissità del disco, in cui non mancano pezzi onestamente poco incisivi e che sanno di riempitivo. Avrei apprezzato maggiormente un album unico contenente il meglio dei due dischi. Possiamo però dire, a ragion veduta, che gli Afterhours sono tornati in grande stile, con un disco che si farà ricordare.
Best track: Non voglio ritrovare il tuo nome

14. PERTURBAZIONE – LE STORIE CHE CI RACCONTIAMO

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Dopo la dipartita di due componenti importanti come il chitarrista Gigi Giancursi e la violoncellista Elena Diana, si riaffacciano sulle scene i Perturbazione. “Le storie che ci raccontiamo” è un disco profondamente diverso dai suoi predecessori, accostabile forse soltanto alle sonorità più pop ed elettroniche del precedente “Musica X”. Ce ne accorgiamo subito dall’opener “Dipende da te”, bel pezzo dai ritmi scanzonati ma dal testo riflessivo, o dall’accattivante singoloLa prossima estate”.  Non si può negare, la dolcezza del violoncello manca, ma poi la voce di Tommaso Cerasuolo e la sempre grande attenzione verso testi che rappresentano un’intera generazione, ci fanno di nuovo sentire a casa. E così ci emozioniamo con la nostalgica “Da qualche parte del mondo”  o con l’ottima title track. Dopotutto, non si può non volere bene ai Perturbazione.
Best track: Le storie che ci raccontiamo

13. ANOHNI – HOPELESSNESS

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Antony Hegarty lascia i suoi Johnsons per unirsi a Hudson Mohawke e Oneohtrix Point Never, diventando Anohni e abbandonando le atmosfere rarefatte e colme di delicata tristezza per virare verso l’elettronica accompagnata da testi politicamente impegnati. Se devo essere sincero personalmente sento la mancanza degli ambienti sonori creati dagli Antony and the Johnsons, capaci di sfornare tra i più bei dischi degli anni 2000. C’è però da dire che la svolta electro ha portato comunque ottimi risultati, come l’irresistibile “4 Degrees”, l’epica title track o l’incedere lento e ipnotico di “I don’t love you anymore”, il pezzo più Antony and the Johnsons dell’intero disco. Sicuramente un ottimo lavoro, dove la stupenda voce di Antony continua a farla imperterrita da padrona, anche se i romantici come me continuano a sperare in un ritorno alle origini.
Best track: I don’t love you anymore

12. LISA HANNIGAN – AT SWIM

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Il 2016 vede anche il ritorno della meravigliosa voce di Lisa Hannigan, ormai alla terza prova solista dopo aver affiancato per anni Damien Rice. Questa volta la Hannigan ci propone un album dalle tinte più fosche e cupe, pur non tralasciando la vena folk che l’ha resa famosa. Così il viaggio sonoro che ci propone la Hannigan passa per episodi più tradizionali e d’atmosfera come la magnifica “Snow“, alla malinconica ballata al piano “We, the drowned”, proponendoci anche esperimenti a cappella come “Anahorish”, per chiudersi con l’elettronica dark della bellissima “Barton”. Una prova matura e maggiormente variegata rispetto al passato, con la solita, immensa voce della Hannigan ad accompagnare il tutto.
Best track: Barton

11. MODERAT – III

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Si capiva che i Moderat avevano tirato fuori dal cilindro un gran disco già dal primo singolo “Reminder”, una bomba impazzita capace di emozionare e far muovere chiunque. L’elettronica da dancefloor di “Running” si alterna a episodi sonori più raffinati come la stupenda opener “Eating hooks” o la sincopata “The fool”, ma non mancano incursioni in sonorità decisamente più spinte ed ostiche per chi mastica poco i ritmi elettronici del trio di Berlino, come la strumentale “Animal trails”. Un percorso in grado di trasportare l’ascoltare tra algidi paesaggi sonori inframezzati da momenti più caldi e melodici, in un mix perfetto e letale. Assolutamente una delle mie migliori scoperte di questo ricco 2016.
Best track: Reminder

Daughter – Not to disappear

Titolo: Not to disappear

Artista: Daughter

Etichetta: 4AD

Anno: 2016

“I feel sick
I’m drowning in the pit of my stomach
Oh I know it’s my fault
While you’re busy diving I find I feel alone
Feel a little out of my mind”

daughter

Torna il terzetto inglese capitanato dalla brava e bella Elena Tonra, che tanto aveva impressionato con il fulminante esordio del 2013 “If you leave”, album che era entrato di diritto nei migliori dischi di fine anno di tutti i siti musicali specializzati. A distanza di tre anni, i talentuosi ragazzi londinesi ci riprovano con il sophomore “Not to disappear”, disco sofisticato ed ambizioso, che segna una parziale svolta nel sound della band. Infatti le atmosfere acustiche e rarefatte del primo lavoro vengono in parte abbandonate, in favore di un suono più corposo e pieno.

Si parte subito in quarta con l’opener “New ways”, dal sapore vagamente dream pop e che ben rappresenta il nuovo indirizzo sonoro intrapreso, con un testo magnifico (basta citare il geniale “I need new ways to waste my time”) che la rende una delle migliori tracce dell’intera opera. Si prosegue con il bel singolo “Numbers”, dove fanno capolino i vecchi Daughter, con la stupenda voce della Tonra a farla da padrone su di un tappeto sonoro ridotto al minimo. “Doing the right thing”, il primo estratto che aveva anticipato l’uscita del disco, è un’intensa e commovente riflessione sulla fragilità umana (“I have lost my children, I have lost my love, I just sit in silence, let the pictures soak”). “How” ci accoglie con un arioso riff di chitarra che ci avvolge nella sua tenera malinconia, cullandoci con una melodia dolceamara. E’ poi la volta di “Mothers”, forse il brano più Daughter vecchio stampo dell’intero disco, che termina però con un’inusuale coda strumentale elettronica. Nel testo la Tonra si interroga sul significato e sulle conseguenze della maternità. “Alone/With You” ci introduce nella parte più sperimentale dell’album: un mantra ipnotico ci accompagna per l’intera durata del brano, che dal punto di vista del testo si può dividere un due parti distinte. Nella prima la Tonra descrive la sua solitudine invocando la persona amata, ma nella seconda maledice se stessa e il suo bisogno di stare con qualcuno che contribuisce soltanto ad accrescere il suo senso di abbandono. Quasi uno studio della solitudine da diversi punti di vista. Una batteria paranoica ci proietta in “No Care”, il brano più tirato del disco, in cui la Tonra quasi sputa fuori la sua rassegnazione e il suo dolore verso una relazione senza amore e senza via d’uscita. E’ poi la volta di una doppietta che mozza il fiato. “To Belong” è un grido di libertà e di indipendenza (“I don’t want to belong, to you, to anyone”), con le chitarre che tessono trame sonore oniriche ed avvolgenti. “Fossa” è sei minuti di pura bellezza, un’analisi cruda e lucida di una storia d’amore intrisa di dolore, con una struggente coda strumentale. La chiusura del disco è affidata alla delicata ed eterea “Made of stone”, epilogo perfetto per terminare il nostro viaggio musicale.

Not to disappear” è un disco che non ha punti deboli, in cui il sound dell’esordio viene arricchito e trasportato verso nuovi lidi. Una prova di maturità da parte di una band che dimostra di saper costruire melodie perfette, incastonate in testi riflessivi e tormentati. Un ritorno che conferma le grandi qualità dei tre ragazzi inglesi, consacrandoli tra le migliori band attualmente in circolazione.

Best tracks: New Ways, To Belong, Fossa

Voto: 5/5

Mr. P.